Gianfranco Galliani Cavenago – Ecoistituto della Valle del Ticino 

 

“QUANDO AD EMIGRARE ERAVAMO NOI”

Storie di Cuggionesi in America

Capitolo 9

  

Il percorso dell’integrazione degli emigrati italiani è stato duro, faticoso e difficile, più che per le precedenti emigrazioni. Un momento importante è stato, paradossalmente, lo scoppio della prima guerra mondiale. Nel 1916 il presidente Wilson e gli Stati Uniti d’America entrano in guerra accanto ai paesi dell’Intesa, alleati quindi dell’Italia, e il presidente Wilson in persona fa un appello a tutte le etnie, a tutte le colonie stanziate negli Stati Uniti d’America, compresi naturalmente anche gli italiani, affinché partecipino a questa guerra patriottica, promettendo loro che chi si fosse arruolato - e si arruolarono anche i cuggionesi – avrebbe avuto automaticamente la cittadinanza americana. Purtroppo questa parentesi fu di breve durata. Nel 1917 scoppiò la rivoluzione in Russia e, subito dopo la fine della prima guerra mondiale, si accese in tutto il mondo una vera psicosi da caccia alle streghe, con la paura dei rossi e il Ku Klux Klan che si organizzava proprio in quel periodo, inizio anni Venti. Se è vero che xenofobia e razzismo avevano una forte componente antiebraica, è tuttavia altrettanto vero che di questo clima da caccia alle streghe soffrirono e pagarono un prezzo pesante anche i nostri emigrati italiani.

Il 26 settembre del 1920, un altro 11 settembre, un emigrato italiano, proprio per dare una risposta a questa caccia alle streghe di cui molti italiani furono vittime – si parlò di un migliaio di italiani internati nei campi degli Stati Uniti –, per ritorsione, fece un terribile attentato dinamitardo a Wall Street, ci si è dimenticati di questo episodio ma è reale, cui fece seguito una repressione ancora più tremenda nei confronti degli italiani, che portò, tra l’altro, all’arresto di Sacco e Vanzetti che, il 23 agosto 1927, vennero condannati alla sedia elettrica.

 

Ritornando all’ultima legge restrittiva, la Quota Act del 1924, che di fatto chiuse le porte all’immigrazione italiana negli Stati Uniti, c’è da dire che il fascismo, da parte sua, ci mise del proprio nel frenare l’emigrazione, sostenendo che non si doveva più emigrare, anzi bisognava cassare la parola emigrante, perchè vergognosa, e non bisognava addirittura neanche più parlare di emigrazione e di emigranti, ma semplicemente di italiani all’estero. La situazione dell’emigrazione italiana si aggravò ancor più col grande crac del ’29 che colpì tutti e immiserì, annichilì i pochi risparmi dei nostri italiani. Un’altra fase importante fu l’adesione degli italiani a Roosevelt, al nuovo corso del New Deal, che ottenne un sostegno veramente plebiscitario.

Torniamo al fascismo. Il fascismo cercò di inserirsi nelle colonie italiane in America e di strumentalizzarle, senza peraltro conseguire grandi successi. Salvemini disse che, malgrado l’impegno dei gerarchi fascisti, gli italiani negli Stati Uniti d’America potevano essere suddivisi in questo modo: il 5% era fascista, il 10% era antifascista, un 35% era tiepidamente filofascista e il 50% pensava agli affari propri. Certamente gli italiani guardarono al fascismo con un certo interesse, perché intravidero in esso, in modo distorto se vogliamo, in modo sbagliato, una sorta di valorizzazione dell’italianità. Tuttavia, quando nel 1940 Mussolini dichiarò guerra al mondo intero, immediatamente gli italiani d’America se ne staccarono e diedero una risposta riprovevole; anzi, quando, dopo Pearl Harbour, anche gli Stati Uniti entrarono in guerra, gli italiani d’America e i cuggionesi, furono moltissimi, si arruolarono nell’esercito degli Stati Uniti.

Cominciava così a realizzarsi una lenta, graduale, progressiva integrazione che non piaceva agli americani, i quali preferivano parlare di assimilazione. Gli emigranti, dicevano, devono diventare americani al 100%; non capivano, e non volevano capire, la particolarità, la specificità etnica degli emigranti, anche di quelli italiani. Una svolta si avrà soltanto negli anni Sessanta con la presidenza Johnson, la guerra del Vietnam, il movimento dei diritti civili, Martin Luther King e tutto il grande movimento americano tendente a recuperare e a valorizzare il ruolo e l’identità delle minoranze etniche. Anche gli italiani, sebbene dal punto di vista politico fossero piuttosto conservatori, beneficiarono di questo nuovo clima, di questo nuovo contesto e, da quel periodo in avanti, anche la società americana, l’opinione pubblica americana non parlò più di assimilazione o di americani al 100%, ma cominciò piano piano a parlare di pluralismo etnico, a maturare un riconoscimento della diversità e dell’identità delle varie etnie che popolavano gli Stati Uniti d’America. Questo è stato l’inizio, il momento del riscatto per i nostri emigranti e da lì è cominciata una progressiva ascesa sociale.

Concludo, dandovi alcuni dati a testimonianza di ciò. Oggi i nostri emigranti amano definirsi italo-americani, anzi, ci tengono a definirsi italo-americani, a differenza di quanto avviene per le altre etnie di più antica emigrazione. Questo fatto lo suffragano i vari censimenti federali nei quali gli intervistati in genere rispondono: “sono americano” e non “sono un tedesco-americano” o “uno svedese-americano”. Al contrario, neCastle Garden - il porto di arrivo di Rosa in Americagli ultimi censimenti federali del 1990 e 2000 c’è stato un aumento notevolissimo di emigrati italiani – si tratta, si badi bene, di discendenti di terza o quarta generazione - che alla domanda: “di dove sei?” hanno risposto: “sono italo-americano” e ci tengono a sottolinearlo. Oggi la comunità italiana negli Stati Uniti, dal punto di vista sociale, può essere annoverata tra le classi medio-alte, presenta un altissimo tasso di alfabetizzazione - si parla di un 30% di italo-americani laureati – e dispone di un reddito medio annuale superiore ai 50.000 dollari; oggi parlare di italianità, agli occhi degli americani, significa parlare di talenti, di creatività artistica, di buon gusto, di grande cucina, di grande ristorazione, di un bel cinema, di raffinatezza.

Questo, in estrema sintesi, è stato il percorso delle nostre comunità italiane.

 

Volevo finire leggendovi, perché mi pare significativo, un passaggio di Rosa Cavalleri, l’emigrante di cui ci ha parlato prima Oreste Magni. Rosa Cavalleri, proletaria cuggionese, trovatella, esposta, figlia dell’ospedale - come si diceva allora -, che prima di partire lavora in filanda e poi decide di emigrare in America, scrive, ad un certo punto, in “Rosa, vita di un’emigrata italiana”: “Ho ancora un ultimo desiderio, tornare in Italia prima di morire. Ora parlo inglese come un americana e potrei andare dappertutto, anche dove vanno i milionari e la gente alta. La guarderei in faccia la gente alta e gli chiederei tutte le cose che ho sempre voluto sapere. Adessso non avrei più paura di nessuno; sarei orgogliosa di venire dall’America e di parlare inglese. Tornerei a Cuggiono a riveder la mia gente e a parlare con i padroni della filanda; tornerei anche a Castelletto e le suore non mi butterebbero più fuori, ora che vengo dall’America. Parlerei con la superiora e sgriderei tutte le suore, non avrei più paura, non oserebbero farmi del male, perché vengo dall’America. Ecco perché amo l’America:  perché mi ha insegnato a non avere più paura”.

 

In queste considerazioni di Rosa Cavalleri sembra esservi un sentimento di rivalsa nei confronti degli antichi padroni e di quella comunità che l’aveva un tempo umiliata ed offesa; ma a ben guardare ed a leggere più attentamente nelle orgogliose parole di Rosa, non c’è questo, non vi è né astio né rancore, né cattivi sentimenti. L’odissea di Rosa, il suo viaggio, la sua permanenza in terra americana, dove ha lavorato, penato e patito sofferenze e umiliazioni, tutta la sua vicenda personale si presenta ai nostri occhi come una storia positiva, vissuta non su un ripiegamento rancoroso, come forse c’era da attendersi, ma nel segno di una crescita e di una maturazione. Rosa in effetti parla sì di un viaggio compiuto in gioventù verso l’America, dell’America vista allora come la terra promessa, da lei come da altri milioni di italiani, ma ci parla anche di un altro viaggio, di un viaggio che l’ha portata ad istruirsi, di una nuova forza che l’ha portata alla conquista di una nuova forza interiore, che ha sviluppato in lei autostima e consapevolezza del proprio valore, un’autostima e una coscienza di sé che l’hanno infine liberata dalle antiche paure e che l’hanno emancipata da una condizione di inferiorità e di minorità psicologica. L’America come metafora di un viaggio verso l’emancipazione, un desiderio che, come quello di Rosa migrante, anima del resto le folle anonime che oggi approdano nel nostro paese. Oggi l’Italia da paese di emigrazione è diventato improvvisamente e inaspettatamente paese di immigrazione, al quale bussano migliaia di diseredati che provengono dal Sud del mondo e dai paesi disastrati dell’Est europeo. Cercano, come hanno cercato i nostri connazionali emigranti, un luogo in cui vivere dignitosamente, cercano un lavoro e un minimo di visibilità e di riconoscimento sociale e qui torna d’attualità il messaggio di Rosa. Rosa ci ha detto come ha imparato a vincere e a superare la paura, il mal sottile dell’inquietudine che si insinua nelle persone di fronte ai fenomeni nuovi che mettono in discussione le nostre certezze e le nostre abitudini; è umano aver paura ed è altrettanto comprensibile un certo irrigidimento quando fatti nuovi e imprevisti irrompono nella nostra vita, ma nostro compito è anche quello di padroneggiare questi stati d’animo e di governare pulsioni negative che possono diventare e rivelarsi distruttive. Non è il caso certo di scivolare in interpretazioni buoniste e sentimentali, ma un dovere si impone: il fenomeno migratorio, che è d’altronde vecchio quanto è vecchia la storia dell’umanità, esige d’essere governato, ma governato non con sciocche strida nativiste e xenofobe, ma con la necessaria intelligenza e con un robusto spirito di civiltà e di razionalità, cominciando magari col rimuovere una certa torpida smemoratezza e sollevare quel velo che ci impedisce di guardare alla nostra storia recente, una storia del resto di cui non abbiamo niente di cui vergognarci perché è stato proprio grazie a questa storia onorata, incomprensibilmente a lungo ignorata e censurata, che l’Italia è diventata un paese moderno, civile e, vogliamo anche pensare, aperto e tollerante.    

 

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