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Capitolo
9
Il
percorso dell’integrazione degli emigrati italiani è stato duro, faticoso e
difficile, più che per le precedenti emigrazioni. Un momento importante è
stato, paradossalmente, lo scoppio della prima guerra mondiale. Nel 1916 il
presidente Wilson e gli Stati Uniti d’America entrano in guerra accanto ai
paesi dell’Intesa, alleati quindi dell’Italia, e il presidente Wilson in
persona fa un appello a tutte le etnie, a tutte le colonie stanziate negli Stati
Uniti d’America, compresi naturalmente anche gli italiani, affinché
partecipino a questa guerra patriottica, promettendo loro che chi si fosse
arruolato - e si arruolarono anche i cuggionesi – avrebbe avuto
automaticamente la cittadinanza americana. Purtroppo questa parentesi fu di
breve durata. Nel 1917 scoppiò la rivoluzione in Russia e, subito dopo la fine
della prima guerra mondiale, si accese in tutto il mondo una vera psicosi da
caccia alle streghe, con la paura dei rossi e il Ku Klux Klan che si organizzava
proprio in quel periodo, inizio anni Venti. Se è vero che xenofobia e razzismo
avevano una forte componente antiebraica, è tuttavia altrettanto vero che di
questo clima da caccia alle streghe soffrirono e pagarono un prezzo pesante
anche i nostri emigrati italiani.
Il
26 settembre del 1920, un altro 11 settembre, un emigrato italiano, proprio per
dare una risposta a questa caccia alle streghe di cui molti italiani furono
vittime – si parlò di un migliaio di italiani internati nei campi degli Stati
Uniti –, per ritorsione, fece un terribile attentato dinamitardo a Wall
Street, ci si è dimenticati di questo episodio ma è reale, cui fece seguito
una repressione ancora più tremenda nei confronti degli italiani, che portò,
tra l’altro, all’arresto di Sacco e Vanzetti che, il 23 agosto 1927, vennero
condannati alla sedia elettrica.
Ritornando
all’ultima legge restrittiva, la Quota Act del 1924, che di fatto chiuse le
porte all’immigrazione italiana negli Stati Uniti, c’è da dire che il
fascismo, da parte sua, ci mise del proprio nel frenare l’emigrazione,
sostenendo che non si doveva più emigrare, anzi bisognava cassare la parola
emigrante, perchè vergognosa, e non bisognava addirittura neanche più parlare
di emigrazione e di emigranti, ma semplicemente di italiani all’estero. La
situazione dell’emigrazione italiana si aggravò ancor più col grande crac
del ’29 che colpì tutti e immiserì, annichilì i pochi risparmi dei nostri
italiani. Un’altra fase importante fu l’adesione degli italiani a Roosevelt,
al nuovo corso del New Deal, che ottenne un sostegno veramente plebiscitario.
Torniamo
al fascismo. Il fascismo cercò di inserirsi nelle colonie italiane in America e
di strumentalizzarle, senza peraltro conseguire grandi successi. Salvemini disse
che, malgrado l’impegno dei gerarchi fascisti, gli italiani negli Stati Uniti
d’America potevano essere suddivisi in questo modo: il 5% era fascista, il 10%
era antifascista, un 35% era tiepidamente filofascista e il 50% pensava agli
affari propri. Certamente gli italiani guardarono al fascismo con un certo
interesse, perché intravidero in esso, in modo distorto se vogliamo, in modo
sbagliato, una sorta di valorizzazione dell’italianità. Tuttavia, quando nel
1940 Mussolini dichiarò guerra al mondo intero, immediatamente gli italiani
d’America se ne staccarono e diedero una risposta riprovevole; anzi, quando,
dopo Pearl Harbour, anche gli Stati Uniti entrarono in guerra, gli italiani
d’America e i cuggionesi, furono moltissimi, si arruolarono nell’esercito
degli Stati Uniti.
Cominciava
così a realizzarsi una lenta, graduale, progressiva integrazione che non
piaceva agli americani, i quali preferivano parlare di assimilazione. Gli
emigranti, dicevano, devono diventare americani al 100%; non capivano, e non
volevano capire, la particolarità, la specificità etnica degli emigranti,
anche di quelli italiani. Una svolta si avrà soltanto negli anni Sessanta con
la presidenza Johnson, la guerra del Vietnam, il movimento dei diritti civili,
Martin Luther King e tutto il grande movimento americano tendente a recuperare e
a valorizzare il ruolo e l’identità delle minoranze etniche. Anche gli
italiani, sebbene dal punto di vista politico fossero piuttosto conservatori,
beneficiarono di questo nuovo clima, di questo nuovo contesto e, da quel periodo
in avanti, anche la società americana, l’opinione pubblica americana non parlò
più di assimilazione o di americani al 100%, ma cominciò piano piano a parlare
di pluralismo etnico, a maturare un riconoscimento della diversità e
dell’identità delle varie etnie che popolavano gli Stati Uniti d’America.
Questo è stato l’inizio, il momento del riscatto per i nostri emigranti e da
lì è cominciata una progressiva ascesa sociale.
Concludo,
dandovi alcuni dati a testimonianza di ciò. Oggi i nostri emigranti amano
definirsi italo-americani, anzi, ci tengono a definirsi italo-americani, a
differenza di quanto avviene per le altre etnie di più antica emigrazione.
Questo fatto lo suffragano i vari censimenti federali nei quali gli intervistati
in genere rispondono: “sono americano” e non “sono un tedesco-americano”
o “uno svedese-americano”. Al contrario, negli ultimi censimenti federali
del 1990 e 2000 c’è stato un aumento notevolissimo di emigrati italiani –
si tratta, si badi bene, di discendenti di terza o quarta generazione - che alla
domanda: “di dove sei?” hanno risposto: “sono italo-americano” e ci
tengono a sottolinearlo. Oggi la comunità italiana negli Stati Uniti, dal punto
di vista sociale, può essere annoverata tra le classi medio-alte, presenta un
altissimo tasso di alfabetizzazione - si parla di un 30% di italo-americani
laureati – e dispone di un reddito medio annuale superiore ai 50.000 dollari;
oggi parlare di italianità, agli occhi degli americani, significa parlare di
talenti, di creatività artistica, di buon gusto, di grande cucina, di grande
ristorazione, di un bel cinema, di raffinatezza.
Questo,
in estrema sintesi, è stato il percorso delle nostre comunità italiane.
Volevo
finire leggendovi, perché mi pare significativo, un passaggio di Rosa Cavalleri,
l’emigrante di cui ci ha parlato prima Oreste Magni. Rosa Cavalleri,
proletaria cuggionese, trovatella, esposta, figlia dell’ospedale - come si
diceva allora -, che prima di partire lavora in filanda e poi decide di emigrare
in America, scrive, ad un certo punto, in “Rosa, vita di un’emigrata
italiana”: “Ho ancora un ultimo desiderio, tornare in Italia prima di morire. Ora
parlo inglese come un americana e potrei andare dappertutto, anche dove vanno i
milionari e la gente alta. La guarderei in faccia la gente alta e gli chiederei
tutte le cose che ho sempre voluto sapere. Adessso non avrei più paura di
nessuno; sarei orgogliosa di venire dall’America e di parlare inglese.
Tornerei a Cuggiono a riveder la mia gente e a parlare con i padroni della
filanda; tornerei anche a Castelletto e le suore non mi butterebbero più fuori,
ora che vengo dall’America. Parlerei con la superiora e sgriderei tutte le
suore, non avrei più paura, non oserebbero farmi del male, perché
vengo dall’America. Ecco perché amo l’America: perché mi ha insegnato a non avere più paura”.
In
queste considerazioni di Rosa Cavalleri sembra esservi un sentimento di rivalsa
nei confronti degli antichi padroni e di quella comunità che l’aveva un tempo
umiliata ed offesa; ma a ben guardare ed a leggere più attentamente nelle
orgogliose parole di Rosa, non c’è questo, non vi è né astio né rancore, né
cattivi sentimenti. L’odissea di Rosa, il suo viaggio, la sua permanenza in
terra americana, dove ha lavorato, penato e patito sofferenze e umiliazioni,
tutta la sua vicenda personale si presenta ai nostri occhi come una storia
positiva, vissuta non su un ripiegamento rancoroso, come forse c’era da
attendersi, ma nel segno di una crescita e di una maturazione. Rosa in effetti
parla sì di un viaggio compiuto in gioventù verso l’America, dell’America
vista allora come la terra promessa, da lei come da altri milioni di italiani,
ma ci parla anche di un altro viaggio, di un viaggio che l’ha portata ad
istruirsi, di una nuova forza che l’ha portata alla conquista di una nuova
forza interiore, che ha sviluppato in lei autostima e consapevolezza del proprio
valore, un’autostima e una coscienza di sé che l’hanno infine liberata
dalle antiche paure e che l’hanno emancipata da una condizione di inferiorità
e di minorità psicologica. L’America come metafora di un viaggio verso
l’emancipazione, un desiderio che, come quello di Rosa migrante, anima del
resto le folle anonime che oggi approdano nel nostro paese. Oggi l’Italia da
paese di emigrazione è diventato improvvisamente e inaspettatamente paese di
immigrazione, al quale bussano migliaia di diseredati che provengono dal Sud del
mondo e dai paesi disastrati dell’Est europeo. Cercano, come hanno cercato i
nostri connazionali emigranti, un luogo in cui vivere dignitosamente, cercano un
lavoro e un minimo di visibilità e di riconoscimento sociale e qui torna
d’attualità il messaggio di Rosa. Rosa ci ha detto come ha imparato a vincere
e a superare la paura, il mal sottile dell’inquietudine che si insinua nelle
persone di fronte ai fenomeni nuovi che mettono in discussione le nostre
certezze e le nostre abitudini; è umano aver paura ed è altrettanto
comprensibile un certo irrigidimento quando fatti nuovi e imprevisti irrompono
nella nostra vita, ma nostro compito è anche quello di padroneggiare questi
stati d’animo e di governare pulsioni negative che possono diventare e
rivelarsi distruttive. Non è il caso certo di scivolare in interpretazioni
buoniste e sentimentali, ma un dovere si impone: il fenomeno migratorio, che è
d’altronde vecchio quanto è vecchia la storia dell’umanità, esige
d’essere governato, ma governato non con sciocche strida nativiste e xenofobe,
ma con la necessaria intelligenza e con un robusto spirito di civiltà e di
razionalità, cominciando magari col rimuovere una certa torpida smemoratezza e
sollevare quel velo che ci impedisce di guardare alla nostra storia recente, una
storia del resto di cui non abbiamo niente di cui vergognarci perché è stato
proprio grazie a questa storia onorata, incomprensibilmente a lungo ignorata e
censurata, che l’Italia è diventata un paese moderno, civile e, vogliamo
anche pensare, aperto e tollerante.
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