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Capitolo
7
L’accoglienza
in terra americana dei nostri emigranti - come dicevo - non è stata affatto
benevola; ne avvennero veramente di tutti i colori perchè c’era un clima di
profonda ostilità (per tutti i motivi che ho cercato di riassumere prima). Il
principale motivo, tra i tanti, per cui i nostri emigranti generavano e
attiravano ostilità, era costituito dal fatto – come sostenevano gli
esponenti del mondo politico di allora, i sindacati operai americani e tanti
altri - che gli emigranti italiani non intendevano affatto stabilirsi in America
ma erano “uccel di passo”, come venivano definiti. Si diceva: vengono qua,
lavorano, fanno mondo a sé, consumano pochissimo - ed era vero perché era
veramente proverbiale la frugalità dei nostri emigranti, che risparmiavano fino
all’osso - e poi sono sudici, sono cattolici, insomma, sono poco assimilabili.
E proprio in questo clima di ostilità diffusa avvengono dei fatti atroci,
frequentissimi episodi di schiavitù o di semi schiavitù, il cosiddetto “péonage”
(questo il termine usato), perchè i nostri emigranti, partiti magari con un
biglietto prepagato dai reclutatori fazenderos - cosa che succedeva spesso e che
successe soprattutto per l’emigrazione veneta che negli anni Ottanta andò in
Brasile a lavorare nelle fazendas delle piantagioni di caffé, dove trovò i
fazenderos ancora legati ad una mentalità schiavistica –, una volta giunti a
destinazione, venivano sottoposti a violenze incredibili, che andavano dalle
bastonature alle violenze alle donne, e venivano perfino incatenati alle
caviglie perché non potessero scappare. Il “péonage”
ci fu anche negli Stati Uniti dove gli emigranti, che erano partiti con il
biglietto prepagato, andavano a lavorare nelle piantagioni di cotone della
Louisiana, New Orleans e dintorni, o del Texas, ma dove questo biglietto, che i
piantatori avevano anticipato, non finivano mai di pagarlo e il loro debito non
era mai estinto: dovevano infatti rifornirsi presso i negozi delle compagnie dei
piantatori e lì dovevano spendere l’ira di Dio. Questo per dare un’idea
dello sfruttamento terribile cui erano sottoposti i nostri emigranti.
Un’altra
manifestazione di ostilità era rappresentata dalla pratica della cosiddetta
legge di Lynch, i linciaggi. I nativi americani, ossessionati da xenofobia e da
sentimenti non certo nobili, non linciarono solo i neri ma anche tantissimi
italiani. Gli episodi più clamorosi in questo senso sono quelli di Tallulah
(1899) nella Louisiana o di New Orleans (1891), che fu forse quello più
clamoroso e che causò anche un piccolo incidente diplomatico tra i rispettivi
paesi. Tre immigrati di origine siciliana vennero a ingiustamente accusati di
aver ucciso lo sceriffo del luogo e imprigionati, ma l’opinione pubblica di
New Orleans non intendeva aspettare il processo. Il clima antitaliano era così
radicato e diffuso che una folla di 20.000 persone - dicono le cronache del
tempo - si radunò nella piazza, diede l’assalto alle carceri, ne sfondò la
porta, prese i tre malcapitati, li impiccò e, non sazia di questo, culminò
l’opera crivellandoli di colpi. Sono tantissimi i fatti del genere che credo
debbano essere ricordati.
Questa
nuova emigrazione, come venne definita l’emigrazione italiana, incompatibile e
non assimilabile per le ragioni che abbiamo detto, creò una situazione molto
particolare che, paradossalmente, vide gli industriali americani favorevolissimi
all’importazione di questa manodopera. Da questo punto di vista gli
industriali americani erano ultraliberisti; per converso le unioni sindacali
americane – e in particolare la Federazione americana del Lavoro, presieduta
da Samuel Gompers, emigrato di origine ebraica - erano ferocemente contrarie a
questa nuova emigrazione e, soprattutto, agli italiani. Perché? vien da
chiedersi.
Una
spiegazione c’è, perché tutto, secondo me, ha una sua razionalità: ad
inizio secolo l’industria americana si stava riorganizzando su basi
efficientistiche - pensiamo ad Henry Ford a Detroit e a tutta l’organizzazione
scientifica tayloristica del lavoro - e non aveva più tanto bisogno degli
operai specializzati di antico retaggio migratorio, degli operai qualificati e
specializzati inglesi o tedeschi, tutti inquadrati nella Federazione Americana
del Lavoro, ma di una nuova figura di operaio - che in tempi recenti avremmo
definito l’operaio massa - adatto ad assolvere a operazioni semplici alla
catena di montaggio e via dicendo. Gli imprenditori americani avevano bisogno di
questa nuova figura che si accontentava di salari inferiori e faceva la
concorrenza alla Federazione del Lavoro di Gompers, che si muoveva invece in
un’ottica corporativa. All’interno di questo quadro si accende una feroce
polemica tra i sindacati e gli industriali, nella quale purtroppo i sindacati
americani non brillano di lungimiranza perché, anziché
gestire consapevolmente la nuova situazione produttiva che si era creata,
intavolando una concertazione - come diremmo oggi - con i padroni americani,
assumono una posizione chiusa, corporativa, tesa a difendere i propri privilegi.
Da qui l’accusa ai nostri operai di essere “scabs”,
crumiri, seguita da tutta una serie di ingiurie, il cui elenco è lunghissimo,
rovesciate sugli emigranti italiani, la più usata delle quali era “dago”,
termine dall’etimo incerto, che non vi saprei tradurre, ma che era sicuramente
un’ingiuria infamante. Da questo clima deriva la legislazione, di cui vi
parlavo prima, del Contract Labor e delle altre norme restrittive. Nel 1907 si
insedia negli Stati Uniti d’America la commissione Dillingham, come viene
chiamata dal nome del suo presidente, che comincia a studiare gli effetti della
nuova emigrazione poco desiderata e che, nel 1911, pubblica, in 41 volumi, i
risultati del suo lavoro, che viene definito “la Bibbia dell’emigrazione”.
Si trattava in realtà di un vero e proprio distillato di xenofobia e di
razzismo dal quale derivarono tutte le successive norme restrittive, quali il
Literacy Act del 1917 e i Quota Act del 1921 e 1924, che conclusero questa
legislazione sull’immigrazione.
Di
cosa si trattava? La legge del 1917, che sottoponeva i nostri emigranti a un
compitino di alfabetizzazione, era una normativa abbastanza restrittiva perché
la maggior parte dei nostri primi emigranti era analfabeta e una normativa di
questo genere aveva, conseguentemente, un valore punitivo. Ciononostante, nel
1917 una buona parte dei nostri emigranti era abbastanza alfabetizzata e gli
emigranti cuggionesi in particolare erano i più alfabetizzati. Sapete perchè?
Perché proprio in quel periodo la locale società di mutuo soccorso e la
cooperativa dei terrazzieri di Cuggiono avevano organizzato una scuola
professionale complementare di disegno, come era ufficialmente denominata, che
era in realtà una scuola per emigranti, dove si insegnava l’abc
dell’emigrazione e, soprattutto, si faceva scuola. Si diceva: cuggionesi per
andare in America dovete sapere leggere e scrivere. Da questo punto di vista
quindi i nostri emigranti furono i più avveduti, i più accorti, i più
preparati.
Soffrirono
però tutti quando nel 1921 venne emanata la prima legge Johnson, dal nome del
suo presidente, meglio nota come la prima legge Quota Act, cioè la prima legge
che contingentava l’emigrazione. Funzionava nel seguente modo: poteva entrare
negli Stati Uniti il 3% dell’etnia già residente in riferimento al censimento
federale del 1910. Era una bella restrizione. Alcuni anni dopo però gli Stati
Uniti, non paghi con una sorta di perfidia nel voler allontanare o contenere al
massimo l’emigrazione latina per favorire quella nord europea, varano
ulteriori restrizioni di quota: non più il 3% ma il 2%, riferito non al
censimento federale del 1910 ma a quello del 1890, quando prevaleva
l’emigrazione nord europea; tutto ciò a scapito, di fatto, dell’emigrazione
italiana che, dal 1924 in poi, si ridusse a 3.400 emigranti che ogni anno
potevano entrare negli Stati Uniti. E gli ispiratori principali di questa
legislazione restrittiva sull’emigrazione furono i sindacati.
I
nostri emigranti, per quanto sprovveduti, per quanto reietti dalla società,
cercarono di organizzarsi e di far fronte a questa ostilità diffusa. Nel 1905 a
Chicago nasce un nuovo sindacato denominato Lavoratori Industriali del Mondo,
meglio noto con la sigla IWW, che si propone di tutelare e difendere i diritti dei lavoratori di tutto il mondo, e in specie di quelli
italiani, riuscendo ad ottenere anche qualche risultato e a rompere un po’ il
monopolio dei sindacati della Federazione Americana del Lavoro che, fra
l’altro, precludeva l’ingresso ai nostri lavoratori, perchè faceva pagare
addirittura una tassa di ingresso di 100 dollari; chi si voleva iscrivere al
sindacato di Gompers doveva pagare 100 dollari, una cifra inaccessibile. I
nostri connazionali erano l’anima di questo nuovo sindacato fondato sulla
solidarietà e sulla tolleranza, dove non c’era discriminazione etnica o di
nazionalità. Proprio questo sindacato, sotto la guida di alcuni esuli politici
italiani – cito ad esempio Giacinto Menotti Serrati, dirigente socialista
italiano che all’inizio del secolo dirigeva il periodico, pubblicato a New
York, “Il Proletario”; Carlo Tresca; Luigi Galleani, e così via -, diede
vita a battaglie memorabili, come quella di Lawrence-Massachusetts del 1912,
quando gli operai tessili italiani diedero organizzarono un memorabile sciopero,
oggetto addirittura di rappresentazioni teatrali, coronato dal successo; oppure
lo sciopero di Paterson-New Jersey, l’anno successivo, memorabile anch’esso
ma non caratterizzato dal successo dell’anno precedente.
Ritengo
doveroso sottolineare il fatto che i sindacati americani siano stati i
principali ispiratori di questa ottica negativa, piccina, meschina, così come
sono stati i principali ispiratori della legislazione americana restrittiva
dell’immigrazione.
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