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Capitolo
5
Torniamo
in patria.
La
nostra emigrazione partiva soprattutto da Genova e, soltanto in un secondo
momento, verranno allestiti e organizzati i porti di Napoli e di Palermo.
Genova, dove c’erano le compagnie Florio, Rubattino, ecc., si era già in
qualche modo attrezzata per il trasporto dei nostri emigranti, moltissimi dei
quali - come dicevo prima - partivano però da Le Havre perché non avevano i
documenti a posto, oppure perché erano renitenti alla leva o, forse più
semplicemente, perché da lì il biglietto costava meno. Quasi tutti i
cuggionesi che andavano in
“Merica” attraversavano la Francia e si imbarcavano da Le Havre. La
traversata veniva fatta con le “navi di Lazzaro”, come erano definite queste
“carrette del mare”, dove si viveva in condizioni incredibili di
sovraffollamento, che dava inevitabilmente luogo a epidemie di colera, ecc.
ecc.; condizioni veramente disumane. La traversata del mare oceano - come si
diceva - era veramente un’avventura e, non a caso, sembra una storia di oggi,
con i naufragi all’ordine del giorno. Il più famoso, tragicamente noto, è
forse quello del “Sirio”, la
data mi pare quella del 1906. Il
Sirio andava in Brasile o proveniva dal Brasile - non ricordo più - e con i
nostri emigranti c’era anche un vescovo che, poco prima di affondare, li
benediceva. Morirono tutti. Ma vediamo un altro documento che dà un po’
l’idea di cosa fosse la traversata.
Teodorico
Rosati, Ispettore sanitario sulla nave degli emigranti
“Accovacciati sulla coperta, presso le scale, con i piatti tra le
gambe, e il pezzo di pane tra i piedi, i nostri emigranti mangiavano il loro
pasto come i poveretti alle porte dei conventi. E’ un avvilimento dal lato
morale e un pericolo da quello igienico, perché ognuno può immaginarsi che
cosa sia una coperta di piroscafo sballottato dal mare sul quale si rovesciano
tutte le immondizie volontarie ed involontarie di quella popolazione viaggiante.
L’insudiciamento dei dormitori è tale che bisogna ogni mattina fare
uscire sul ponte scoperto gli emigrati per nettare i pavimenti. Secondo il
regolamento i dormitori sono spazzati con segatura, occorrendo si mescolano
disinfettanti, sono lavati diligentemente ed asciugati. Ma tutte le deiezioni e
le immondizie che si accumulano sui pavimenti corrompono l’aria con forti
emanazioni e la pulizia sarà difficile.”
La
traversata durava 25/30 giorni, talvolta qualche giorno meno, dipendeva dalle
“carrette del mare”. I nostri emigranti arrivavano a New York e, fino al
1892, il centro deputato alla loro accoglienza era Castle Garden che però, ad
un certo momento, si rivelò insufficiente ad accogliere questa enorme massa di
gente. Viste le dimensioni dell’esodo, si decise così di trasformare Ellis
Island - un piccolo isolotto che si trova di fronte a Manhattan, un tempo
adibito dall’esercito americano a deposito di armi e di munizioni - in centro
di accoglienza. Ellis Island: il “non luogo”, il “luogo dell’erranza”,
“l’isola delle lacrime”, come venne definita da Georges Perec.
Ad
Ellis Island i nostri emigranti dovevano subire tutta una serie di controlli
sanitari da parte di ispettori che incutevano timore con le loro divise e con il
loro portamento. Uno dei primi controlli, che questi ispettori sanitari
facevano, era guardare loro gli occhi per vedere se avessero il tracoma; seguiva
tutta una serie di altre ispezioni di carattere sanitario. Se ci fosse stato
qualche caso dubbio, veniva inviato ad una commissione speciale che avrebbe
eseguito un esame più attento. Naturalmente, se si fosse sospettato che il
nostro emigrante potesse essere portatore di qualche malattia contagiosa, oppure
fosse stato, anche più semplicemente, troppo in là negli anni, oppure non
avesse avuto i soldi, veniva talvolta mandato indietro, rispedito a casa.
A
proposito di Ellis Island Georges
Perec, poeta francese, dice:
“L’ispettore disponeva di circa due minuti per decidere se
l’emigrante aveva o no il diritto di entrare negli Stati Uniti e prendeva
questa decisione dopo avergli posto una serie di 29 domande: come si chiama?, da
dove viene?, perché viene negli Stati Uniti?, quanti anni ha?, quanti soldi
ha?, dove li tiene?, me li faccia vedere; chi ha pagato la sua traversata?, ha
firmato in Europa un contratto per venire a lavorare qui?, ha degli amici qui?,
parenti?, qualcuno può garantire per lei?, che mestiere fa?, lei è anarchico?.
Se il nuovo arrivato rispondeva in un modo che l’ispettore riteneva
soddisfacente, l’ispettore stampigliava il visto e lo lasciava andare dopo
avergli dato il benvenuto “Welcome to America”; se c’era il benché minimo
problema scriveva sul foglio S.I., che voleva dire Special Inquiry, ispezione
speciale, e l’emigrante veniva convocato, dopo una nuova attesa, davanti a una
commissione composta da tre ispettori, uno stenografo e un interprete, che
sottoponevano il candidato all’emigrazione a un interrogatorio molto più
approfondito.”
“Quel che io Georges Perec sono venuto ad interrogare qui è
l’erranza, la dispersione, la diaspora. Ellis Island per me è il luogo stesso
dell’esilio, vale a dire il luogo dell’assenza di luogo, il non luogo, il da
nessuna parte; è in questo senso che queste immagini mi riguardano, mi
affascinano, mi implicano, come se la ricerca della mia identità passasse
dall’approvazione di questo luogo di scarica, dove funzionari sfiancati
battezzavano americani a palate. Quel che per me si trova qui non sono affatto
segnali, radici o tracce, ma il contrario, qualcosa di informe al limite del
dicibile, qualcosa che potrei chiamare reclusione o
scissione o frattura.”
L’emigrante
che superava l’ostacolo dei meticolosi e puntigliosi controlli di Ellis Island,
si trovava di fronte al problema impellente della sistemazione,
dell’abitazione, del lavoro. Molti dei nostri emigranti arrivavano in America
attraverso reti informali, chiamati da amici, da parenti, e così via, e questi
erano i più fortunati perché potevano confidare su un riferimento fidato,
importante; altri invece, che si erano imbarcati ed erano arrivati in America
senza queste reti protettive, arrivati sulla Battery di New York, erano facile
preda di personaggi poco raccomandabili, i boss, che hanno dato vita a
un’abbondante letteratura sul cosiddetto “boss system” - come venne
chiamato -, un’organizzazione composta da padroni italiani che masticavano un
po’ di inglese e si preoccupavano, in modo molto interessato, della
sistemazione dei nostri emigranti, mettendoli a pensionamento - i cosiddetti
“bordanti”, corruzione del termine inglese “boarding house” - oppure si
preoccupavano, sempre in modo interessato, di inviarli nei luoghi di lavoro.
Anche questo è un aspetto doloroso della nostra emigrazione perché sono state
fatte cose veramente infami alle spalle dei nostri emigrati da parte di altri
nostri connazionali, che lucravano tangenti usurarie, scandalose. Il governo
americano, quando venne a conoscenza del fenomeno, cercò, seppur tardivamente,
di reprimerlo.
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