Gianfranco Galliani Cavenago – Ecoistituto della Valle del Ticino 

 

“QUANDO AD EMIGRARE ERAVAMO NOI”

Storie di Cuggionesi in America

Capitolo 5

 

Torniamo in patria.

La nostra emigrazione partiva soprattutto da Genova e, soltanto in un secondo momento, verranno allestiti e organizzati i porti di Napoli e di Palermo. Genova, dove c’erano le compagnie Florio, Rubattino, ecc., si erada "Partono i bastimenti" di Paolo Cresci e Luciano Guidobaldi, Mondadori, 1980 già in qualche modo attrezzata per il trasporto dei nostri emigranti, moltissimi dei quali - come dicevo prima - partivano però da Le Havre perché non avevano i documenti a posto, oppure perché erano renitenti alla leva o, forse più semplicemente, perché da lì il biglietto costava meno. Quasi tutti i cuggionesi che andavano in “Merica” attraversavano la Francia e si imbarcavano da Le Havre. La traversata veniva fatta con le “navi di Lazzaro”, come erano definite queste “carrette del mare”, dove si viveva in condizioni incredibili di sovraffollamento, che dava inevitabilmente luogo a epidemie di colera, ecc. ecc.; condizioni veramente disumane. La traversata del mare oceano - come si diceva - era veramente un’avventura e, non a caso, sembra una storia di oggi, con i naufragi all’ordine del giorno. Il più famoso, tragicamente noto, è forse  quello del “Sirio”, la data mi pare quella del 1906.  Il Sirio andava in Brasile o proveniva dal Brasile - non ricordo più - e con i nostri emigranti c’era anche un vescovo che, poco prima di affondare, li benediceva. Morirono tutti. Ma vediamo un altro documento che dà un po’ l’idea di cosa fosse la traversata.

 

 

Teodorico Rosati, Ispettore sanitario sulla nave degli emigranti  

“Accovacciati sulla coperta, presso le scale, con i piatti tra le gambe, e il pezzo di pane tra i piedi, i nostri emigranti mangiavano il loro pasto come i poveretti alle porte dei conventi. E’ un avvilimento dal lato morale e un pericolo da quello igienico, perché ognuno può immaginarsi che cosa sia una coperta di piroscafo sballottato dal mare sul quale si rovesciano tutte le immondizie volontarie ed involontarie di quella popolazione viaggiante.  

L’insudiciamento dei dormitori è tale che bisogna ogni mattina fare uscire sul ponte scoperto gli emigrati per nettare i pavimenti. Secondo il regolamento i dormitori sono spazzati con segatura, occorrendo si mescolano disinfettanti, sono lavati diligentemente ed asciugati. Ma tutte le deiezioni e le immondizie che si accumulano sui pavimenti corrompono l’aria con forti emanazioni e la pulizia sarà difficile.”

 

  da "Partono i bastimenti" di Paolo Cresci e Luciano Guidobaldi, Mondadori, 1980

La traversata durava 25/30 giorni, talvolta qualche giorno meno, dipendeva dalle “carrette del  mare”. I nostri emigranti arrivavano a New York e, fino al 1892, il centro deputato alla loro accoglienza era Castle Garden che però, ad un certo momento, si rivelò insufficiente ad accogliere questa enorme massa di gente. Viste le dimensioni dell’esodo, si decise così di trasformare Ellis Island - un piccolo isolotto che si trova di fronte a Manhattan, un tempo adibito dall’esercito americano a deposito di armi e di munizioni - in centro di accoglienza. Ellis Island: il “non luogo”, il “luogo dell’erranza”, “l’isola delle lacrime”, come venne definita da Georges Perec.

Ad Ellis Island i nostri emigranti dovevano subire tutta una serie di controlli sanitari da parte di ispettori che incutevano timore con le loro divise e con il loro portamento. Uno dei primi controlli, che questi ispettori sanitari facevano, era guardare loro gli occhi per vedere se avessero il tracoma; seguiva tutta una serie di altre ispezioni di carattere sanitario. Se ci fosse stato qualche caso dubbio, veniva inviato ad una commissione speciale che avrebbe eseguito un esame più attento. Naturalmente, se si fosse sospettato che il nostro emigrante potesse essere portatore di qualche malattia contagiosa, oppure fosse stato, anche più semplicemente, troppo in là negli anni, oppure non avesse avuto i soldi, veniva talvolta mandato indietro, rispedito a casa.

 

A proposito di Ellis Island  Georges Perec, poeta francese, dice: 

L’ispettore disponeva di circa due minuti per decidere se l’emigrante aveva o no il diritto di entrare negli Stati Uniti e prendeva questa decisione dopo avergli posto una serie di 29 domande: come si chiama?, da dove viene?, perché viene negli Stati Uniti?, quanti anni ha?, quanti soldi ha?, dove li tiene?, me li faccia vedere; chi ha pagato la sua traversata?, ha firmato in Europa un contratto per venire a lavorare qui?, ha degli amici qui?, parenti?, qualcuno può garantire per lei?, che mestiere fa?, lei è anarchico?. Se il nuovo arrivato rispondeva in un modo che l’ispettore riteneva soddisfacente, l’ispettore stampigliava il visto e lo lasciava andare dopo avergli dato il benvenuto “Welcome to America”; se c’era il benché minimo problema scriveva sul foglio S.I., che voleva dire Special Inquiry, ispezione speciale, e l’emigrante veniva convocato, dopo una nuova attesa, davanti a una commissione composta da tre ispettori, uno stenografo e un interprete, che sottoponevano il candidato all’emigrazione a un interrogatorio molto più approfondito.”

“Quel che io Georges Perec sono venuto ad interrogare qui è l’erranza, la dispersione, la diaspora. Ellis Island per me è il luogo stesso dell’esilio, vale a dire il luogo dell’assenza di luogo, il non luogo, il da nessuna parte; è in questo senso che queste immagini mi riguardano, mi affascinano, mi implicano, come se la ricerca della mia identità passasse dall’approvazione di questo luogo di scarica, dove funzionari sfiancati battezzavano americani a palate. Quel che per me si trova qui non sono affatto segnali, radici o tracce, ma il contrario, qualcosa di informe al limite del dicibile, qualcosa che potrei chiamare reclusione  o scissione o frattura.”

 

L’emigrante che superava l’ostacolo dei meticolosi e puntigliosi controlli di Ellis Island, si trovava di fronte al problema impellente della sistemazione, dell’abitazione, del lavoro. Molti dei nostri emigda "Partono i bastimenti" di Paolo Cresci e Luciano Guidobaldi, Mondadori, 1980ranti arrivavano in America attraverso reti informali, chiamati da amici, da parenti, e così via, e questi erano i più fortunati perché potevano confidare su un riferimento fidato, importante; altri invece, che si erano imbarcati ed erano arrivati in America senza queste reti protettive, arrivati sulla Battery di New York, erano facile preda di personaggi poco raccomandabili, i boss, che hanno dato vita a un’abbondante letteratura sul cosiddetto “boss system” - come venne chiamato -, un’organizzazione composta da padroni italiani che masticavano un po’ di inglese e si preoccupavano, in modo molto interessato, della sistemazione dei nostri emigranti, mettendoli a pensionamento - i cosiddetti “bordanti”, corruzione del termine inglese “boarding house” - oppure si preoccupavano, sempre in modo interessato, di inviarli nei luoghi di lavoro. Anche questo è un aspetto doloroso della nostra emigrazione perché sono state fatte cose veramente infami alle spalle dei nostri emigrati da parte di altri nostri connazionali, che lucravano tangenti usurarie, scandalose. Il governo americano, quando venne a conoscenza del fenomeno, cercò, seppur tardivamente, di reprimerlo.

 

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