Gianfranco Galliani Cavenago – Ecoistituto della Valle del Ticino 

 

“QUANDO AD EMIGRARE ERAVAMO NOI”

Storie di Cuggionesi in America

Capitolo 4

 

La crisi agraria degli anni Ottanta, che gli storici dell’economia hanno definito come l’inizio della lunga depressione che arriverà fino quasi agli ultimi anni del secolo, sarà una delle cause dell’ulteriore peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni contadine. Quale ne era la causa? All’inizio degli anni Ottanta affluiscono sui mercati europei e italiani i cereali americani, concorrenziali a quelli di produzione nazionale, che mettono in profonda crisi, anzi mettono in ginocchio, l’economia nazionale; una crisi veramente grave, che desta profondissimo allarme e alla quale i proprietari reagiscono nell’unico modo che conoscono: inasprendo le relazioni di lavoro, i rapporti di produzione con i propri dipendenti, con i propri coloni, con i nostri mezzadri. Sarà appunto questo uno dei motivi che genereranno le ribellioni di cui abbiamo prima parlato.

Dinanzi a questo ulteriore peggioramento gli esodi transoceanici diventano sempre più massicci, ed è proprio dai primi anni ’80, dal 1882 per la precisione, che cominciano a partire anche i cuggionesi, che mettono in un canto il loro tradizionale lavoro itinerante nei vari cantieri europei e vanno in “Merica”, dirigendosi in particolar modo a St. Louis, dove daranno vita a quel particolarissimo quartiere meglio noto come Dago Hill.

Di quel periodo è anche la fioritura di tutta una letteratura popolare sull’argomento migratorio, oltre che di “strambotti” vari, poemi, canti e via dicendo. Tra di essi ne ho trovato uno che mi pare molto bello e che dà veramente il senso del dramma dell’esodo. Il testo è di un autore anonimo tedesco, trovato da un dirigente socialista del tempo, tal Ferdinando Fontana, al quale piacque e decise di tradurlo, mettendolo in rima. Il testo ha un andamento “esotico”, in cui sono rappresentati fondamentalmente due personaggi: i padroni e i contadini che emigrano, dove i padroni sono ammantati con la pelle del lupo e gli emigranti sono invece le pecore.

 

“Il canto degli emigranti”

Ferdinando Fontana, 1881

 

“Noi siamo pecore, figli di pecore.

Di generazione in generazione i lupi si scaldano con la nostra lana e si cibano con la nostra carne.

Un giorno vennero a dirci che in un paese molto vasto, ma molto lontano, noi avremmo potuto campare meno peggio.

Oh  pecore, pecore – ci gridarono - badate che c’è il mare da attraversare

E noi lo attraverseremo

E se fate naufragio e vi annegate?

Meglio morire d’un colpo che agonizzare tutta la vita

Oh povere pecore, ma  voi non sapete che in quel paese molto vasto e molto lontano ci sono delle malattie tremende

Nessuna malattia potrebbe essere più tremenda di quella che noi soffriamo di padre in figlio: la fame”

 

A questo punto credo sia necessario dare qualche informazione anche sulla politica migratoria del nostro paese e sulle leggi relative. Alle invettive censorie - che abbiamo prima citato - l’atteggiamento del governo comincia a cambiare e si dice che questi esodi devono essere in qualche modo regolamentati e disciplinati e nel 1888 il governo Crispi vara la prima legge sull’emigrazione. Non è una bella legge, per tanti motivi. Innanzitutto perché è una legge di polizia, segnata, più che altro, da preoccupazioni di ordine pubblico, e non si pone assolutamente il problema della tutela e dell’assistenza dei nostri emigranti, neanche una parola a tal proposito. Introduce però un elemento di novità importante (che poi avrà anche funesti effetti): legittima la figura dell’“agente di emigrazione”, che diventerà in seguito una professione, tanto che negli anni seguenti opereranno in Italia ben 20 mila agenti e subagenti di emigrazione. In genere non si trattava di personaggi disinteressati, animati da spirito filantropico, ma, spesso, di farabutti, legati alle compagnie di navigazione che fecero degli esodi un vero e proprio traffico di emigranti, perché il trasporto degli emigranti si stava rivelando un commercio che dava incredibili profitti, soprattutto per le compagnie di navigazione. E su questi agenti e subagenti di emigrazione intervenne, non a caso, la chiesa di allora e soprattutto l’ordine degli Scalabriniani, coloro che, insieme alla Società Umanitaria, negli anni a venire si preoccuperanno molto della vicenda dei nostri emigranti e cercheranno in qualche modo di organizzare un minimo di tutela e di assistenza a loro favore.

In definitiva, la legge del 1888 si rivela una legge sciagurata che, del resto, non frena affatto gli esodi. Sarà soltanto in un successivo momento e in un contesto politico diverso, nel 1901 per l’esattezza, con la svolta liberale e i primi governi Giolitti, che verrà varata, proprio dal governo Zanardelli/Giolitti, una legge dignitosa - definiamola così - che cercherà di gestire in modo civile la nostra emigrazione. Questa legge istituirà, per esempio, il Commissariato generale dell’emigrazione renderà gratuiti i passaporti di terza classe - perché i nostri emigranti che si imbarcavano sui bastimenti viaggiavano in terza classe - e introdurrà tutta una serie di agevolazioni e di organismi preposti alla tutela dei nostri emigranti. Il primo di essi sorgerà proprio a New York, dove nel 1902 verrà organizzato il patronato per l’assistenza e la tutela dei nostri emigranti intitolato a San Raffaele, anche se, fin dal 1892 e sempre a New York, Giovan Battista Scalabrini (arcivescovo di Piacenza ) si era attivato a favore degli emigranti creando, insieme a monsignor Bonomelli (arcivescovo di Cremona), degli ordini missionari deputati all’assistenza dell’emigrazione italiana, e più precisamente: di quella verso l’Europa monsignor Bonomelli, di quella verso le Americhe, del Nord e del Sud, monsignor Scalabrini.          

Anche l’atteggiamento censorio nei confronti dell’emigrazione cambia e si trasforma in atteggiamento di interesse, anzi la legge Zanardelli/Giolitti nasce proprio perché l’atteggiamento è mutato. Per darvi un’idea di questo mutamento da parte dell’“intellighenzia” politica, oltre  che della società italiana in generale, voglio citare uno scritto di Luigi Einaudi che, all’inizio del Novecento, scrive un libro molto interessante intitolato “Un principe mercante”, che è tutto un panegirico nei confronti di un industriale bustese, Enrico Dell’Acqua, il quale, per piazzare i suoi manufatti cotonati, era andato in Argentina e in altri paesi del Sud America dove già vivevano consistenti colonie di italiani, perché vedeva in questi insediamenti di emigrati italiani un veicolo importante che avrebbe favorito il commercio dei nostri manufatti. L’opinione di Luigi Einaudi, un’opinione che trova largo consenso, dice più o meno questo: “l’emigrazione non è un fatto negativo anzi si può trasformare, per la nostra economia, in un fatto estremamente positivo perché può essere veicolo delle nostre esportazioni.”

Il fenomeno migratorio comincia in effetti a diventare estremamente interessante e importante per la nostra economia: basta pensare alle rimesse degli emigranti. Gli studiosi che si sono occupati di questo particolare aspetto hanno detto che, ad esempio, che nel decennio che va dal 1902 al 1913, entrarono in Italia, attraverso il Banco di Napoli che per legge si doveva occupare della gestione delle nostre rimesse, una media annuale di ben 290 milioni di lire. Per darvi un’idea di cosa significasse quella cifra, cifra stimata per difetto perché il Banco di Napoli non poteva conoscere gli altri flussi di denaro che entravano in Italia e che andavano alle famiglie attraverso le lettere o che si portavano in tasca gli emigranti che facevano periodicamente ritorno in patria. 290 milioni annui, mediamente, era un gettito notevolmente superiore a quello che complessivamente raccoglieva lo Stato italiano attraverso le imposte dirette. Ecco perché l’emigrazione era diventata un fenomeno importante e questo spiega anche il mutamento di atteggiamento della classe politica italiana.

I nostri emigranti andavano allora in America distribuendosi in modo abbastanza equo tra gli Stati Uniti, l’Argentina e il Brasile. Per quanto riguarda l’emigrazione oltreoceano, prima dei grandi esodi, ve ne era stata una particolare che, a mio avviso, merita di essere ricordata; un’emigrazione elitaria, eminentemente politica. Pensiamo a Garibaldi, per citare il nome più famoso, guerrigliero in Uruguay e in Argentina e poi fabbricatore di candele, come Antonio Meucci, a New York; ma pensiamo anche a tutti gli altri esuli che, dopo aver preso parte, ad esempio, ai moti del 1821 e aver, in qualche caso, scontato il carcere dello Spielberg, sono costretti a lasciare l’Italia. Basta pensare a Federico Confalonieri, il nome più noto; o a Luigi Tinelli, già capo dell’organizzazione mazziniana “La Giovine Italia” in Lombardia, anch’egli incarcerato ma dalle autorità francesi; o a un nobile scomodo, Luigi Napoleone, di cui il governo francese di Luigi Filippo d’Orleans sentì il bisogno di sbarazzarsi cacciandolo in America. Francesco Arese va in America, prepara la sistemazione del suo amico Luigi Napoleone e, dopo aver soddisfatto questa incombenza, parte per un viaggio verso ovest, che dura sette mesi, e arriva fino a St. Louis, la porta dell’ovest che, ancora nel 1836, è uno spazio vuoto. Compie questo viaggio rischioso, avventuroso, temerario, con la scorta di un trapper canadese e di un indiano e racconta in un “Note di un viaggio nella prateria americana” questa sua esperienza che lo colpisce profondamente. Lo colpisce, per esempio, quando a Buffalo vede diverse centinaia di indiani della fiera tribù degli Irokesi e prova una profonda pena di fronte a questi individui così macilenti, di condizione miserabile, tutti un po’ “ciucchi” e che sono lì per prendere i soldi che il governo americano dà loro per avergli requisito o comprato le terre. Il nostro Arese, dopo St. Louis, si inoltra nel grande spazio vuoto dell’ovest americano, va incontro anche a tutta una serie di disavventure e scrive queste sue note. Le considerazioni che fa Arese sono di un duplice ordine: di grande meraviglia, di grande stupore, di ammirazione per tutto ciò che di moderno e di avanzato vede negli Stati Uniti d’America, come i battelli che viaggiano sul Mississippi, che considera una grande meraviglia, ma anche di profonda censura, quando mette in luce, per esempio, l’atteggiamento brutale dei colonizzatori europei che non hanno alcun rispetto per le popolazioni native, i pellerossa, verso le quali hanno un atteggiamento violento.

Pensiamo ancora, infine, a Filippo Mazzei, amico di Thomas Jefferson, che, si dice, sia stato uno degli ispiratori della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America. Alcuni di questi esuli politici e intellettuali italiani erano andati in America perché il mito americano, decantato da Voltaire per esempio, già cominciava a fare scuola.

Scusate la digressione, ma mi è parso doveroso e importante ricordare anche questo tipo emigrazione - che mi ha colpito e mi è parsa molto interessante - che ha preceduto quella popolare di tanti contadini proletari che partirono dagli anni Ottanta in poi.                                     

Per soffermarsi ancora un momento su ciò che erano gli Stati Uniti d’America (dal momento che concentreremo il nostro discorso sull’emigrazione diretta verso gli Stati Uniti) va detto che il governo americano, fino grosso modo agli anni successivi alla guerra civile (anni Sessanta), aveva incoraggiato l’emigrazione europea e le prime popolazioni a partire verso gli Stati Uniti, subito dopo la fine delle guerre napoleoniche, nei primi decenni dell’Ottocento, erano stati naturalmente gli inglesi, i tedeschi, le popolazioni scandinave, gli svedesi, e, in un secondo momento, gli irlandesi (anni Quaranta). Furono queste le popolazioni, gradite e sollecitate dai vari governi americani, che cominciarono a popolare e a colonizzare l’ovest degli Stati Uniti; nasceva il mito della frontiera, questa linea immaginaria che stava a delimitare lo spazio vuoto dall’incivilimento, dalla colonizzazione. E questa immigrazione, sostenuta e favorita dai governi americani, era particolarmente sostenuta dal governo Lincoln, che nel 1862 promulgava una legge importante, l’Homestead Act, che concedeva a titolo gratuito le terre - si parlava di 160 acri per pochi dollari - a quei coloni che fossero stati disponibili a colonizzare quelle terre vergini, che per la verità non erano del tutto disabitate come si diceva, perché lì vivevano ancora le popolazioni native. Quando però, a partire dagli anni Settanta/Ottanta, questo tipo di emigrazione nordeuropea comincia a rallentare, il bacino e le aree di emigrazione si spostano verso i paesi del Sud Europa, Italia soprattutto, Spagna, Grecia, i Balcani, la Siria. Si tratta, secondo la definizione data dagli americani, di una nuova emigrazione, dove l’aggettivo “nuova” non è un termine propriamente asettico, ma ha un’implicazione fortemente negativa, perchè la società americana e i politici degli Stati Uniti sono spaventati da questa emigrazione latina che non parla inglese, che è cattolica, che è sprovvista di capitali, che è poverissima. Gli agricoltori tedeschi, che andavano in Pennsilvanya per esempio, avevano non solo i soldi della traversata, ma erano in genere provvisti di un discreto peculio, perché chi si avviava a fare l’agricoltore aveva bisogno di un piccolo capitale iniziale; si parlava di 400/500 dollari per dissodare, bonificare e avviare l’azienda agricola. I contadini italiani, slavi, siriani, ecc. hanno invece a malapena i soldi del biglietto, sono contadini in patria ma, quando arrivano in America, fanno di tutto meno che il contadino. Viene addirittura coniato un termine, rivolto soprattutto agli italiani, definiti “popolo indesiderabile”; definizione ufficiale: popolo indesiderabile. E non a caso, proprio in quel periodo, 1882/85, la legislazione americana, che aveva favorito e sostenuto con leggi appropriate l’immigrazione, comincia a selezionarla attraverso norme e leggi restrittive, la più importante delle quali, 1885,  è la cosiddetta legge del Contract Labor, che stabilisce che non si può più entrare negli Stati Uniti d’America col contratto. La cosa può sembrare strana ma è così: non si può entrare sotto contratto di lavoro, lo si fa in altri modi. E da allora, via via fino agli anni Venti, ci sarà tutta una serie di norme tendenti a restringere in modo progressivamente più severo l’immigrazione, almeno questo tipo di immigrazione.

   

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