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Capitolo
3
Ma
perché si emigrava? Questa, mi pare, è la domanda fondamentale che sale alle
labbra di tutti noi. In breve: si emigrava per povertà e miseria estrema.
Alcuni
indicatori mi sembrano eloquenti per dare la fotografia di ciò che era
l’Italia subito dopo il compimento dell’unità del paese: l’Italia aveva
26 milioni di abitanti circa; era un paese eminentemente agricolo, il 70% della
popolazione attiva era dedita all’agricoltura; le aspettative di vita erano
molto brevi, 40 anni per gli uomini e 34 anni per le donne; la mortalità
infantile era altissima, sei bambini su dieci non arrivavano ai cinque anni di
età; l’analfabetismo era diffuso, il 74% della popolazione italiana era
censito come analfabeta. Le condizioni di vita erano avvilenti: ambienti
malsani, case povere, sovraffollate, abitate da famiglie contadine in
deplorevole promiscuità con gli animali, ambienti impregnati di sostanze
patogene. Ricorrenti le epidemie di vaiolo, il colera - che per tutto
l’Ottocento infestò le campagne d’Italia, comprese quelle lombarde - ma
soprattutto la pellagra, questo terribile flagello di cui erano affetti quasi
tutti i contadini dell’alta Lombardia, oltre che del Veneto, che si cibavano
prevalentemente di farina di granoturco - non che il granoturco in sé fosse un
alimento malsano – e facevano il pane casalingo, pane giallo o di polenta, con
una farina spesso avariata perché il grano veniva conservato semplicemente
stipandolo sotto i letti. La pellagra era determinata soprattutto dalla carenza
di vitamine - la possiamo infatti annoverare fra le malattie avitaminosi - perchè
mancava di una vitamina in particolare, la miacina, e tale carenza era la causa
fondamentale di questo male terribile caratterizzato da un andamento ciclico:
compariva, in una prima fase, con un tipico eritema desquamativo della pelle,
scompariva in autunno, riappariva la primavera successiva in forme più
aggravate e ricompariva ancora il terzo anno dando luogo a terribili
manifestazioni di deliri, di visioni da incubo e, nello stadio estremo,
conduceva alla follia. A questa malattia le più esposte e vulnerabili erano le
donne.
Per
dare un’idea delle dimensioni di questo terribile flagello, di cui abbiamo
perso la memoria, vi basti sapere che nella seconda metà del Settecento, a
Legnano, viene creato da un medico milanese, tal Gaetano Strambio, il primo
pellagrosario d’Italia, che di fatto è un manicomio, perché i nostri
contadini, denutriti e malnutriti, che si cibavano esclusivamente di polenta e
di pane giallo di mais guasto, alla fine si ammalavano di pellagra e andavano a
finire incatenati nei letti di contenzione dell’Ospedale Maggiore o dei vari
pellagrosari. Sottolineo questo aspetto perché mi pare l’indicatore più
eloquente dell’estrema povertà e miserabilità di cui erano affette le nostre
popolazioni contadine.
Dal
Secolo - quotidiano di Milano - 8/9 luglio 1879
“I pellagrosi”
“Erano 52, vestiti di cenci, scarni, con gli sguardi vacui dove
leggevasi la pazzia e l’ebetismo. Li vedemmo ieri entrare nel nostro Spedale
Maggiore. Erano i contadini pellagrosi che provenivano dai campi ubertosi di
Magenta, di Meda, di Barlassina, che arricchiscono i proprietari e sui cui
solchi essi muoiono di fame. I rispettivi comuni li mandarono fra noi per la
cura dei bagni; le donne, creature più deboli nella campagna, sottoposte a
maggiori fatiche, formano il numero maggiore
di questo triste convoglio: esse erano 30 e gli uomini 22. La loro vista
incuteva a un tempo pietà e orrore, ciascuno era il vivo e doloroso esempio del
pellagroso descritto da Carlo Maravalle nei suoi robusti versi:
Inaridito, sozzo, del color della segale
La pelle cascante a liste, screpolata e brutta,
Delle funebri rose ambe le mani
Strano il gesto, il parlar, strana la voce
Or disperato traversava siepi, strade, fossati
Or s’ascondea, piangendo, nelle
folte aree dei lontani boschi
Come del peccator langue il corpo, Satana afferra e più non abbandona
Il maledetto mal della miseria avea ghermito un infelice
Pazzo per via, per strada s’avvolgea gridando:
“Oh mia Teresa, Oh figli miei salvatevi”
In uno spettro invisibile m’afferra,
Senza pietate e dal ritroso passo mi forza
Sei tu forse, Oh donna mia, che mi chiami a giacer
nella tua fossa
Una pioggia di lacrime incessante, lenta, sente scrosciar qui nelle
orecchie
Sono infuocate lacrime di due dannate
Son le mie figliole, han fame
Ed un tozzo non ho per disfamarle”
Tra
le tante testimonianze di queste condizioni inumane, di estrema miseria, vi sono
le manifestazioni di ribellione contadina che, per tutta la seconda metà
dell’Ottocento, scoppiano e divampano nei nostri paesi, nelle nostre campagne.
Pensiamo, per esempio, ai moti sul macinato. Nel 1868 il parlamento italiano
varava la sciagurata legge dell’imposta sul macinato - che sarebbe poi andata
in vigore col 1° gennaio 1869 - che infieriva sui consumi popolari. Vi basti
sapere che il contadino, che andava al mulino per far macinare il suo grano,
trovava il mugnaio elevato al rango di esattore del governo, perché la legge
aveva imposto che sulla macina del mulino ci fosse un contatore: tot. giri tot.
imposta che il contadino doveva pagare. Potete capire l’odiosità di tale
imposta che scatenò, non a caso, in alcune regioni d’Italia, e in particolar
modo nel mantovano e in alcune province dell’Emilia, delle sollevazioni
popolari che vennero poi represse anche nel sangue. Per la verità il disagio
contadino si era manifestato addirittura nell’estate del 1860, nel bel mezzo
del processo di unificazione nazionale, quando i contadini delle campagne di Rho
e della provincia di Milano, ribellandosi ai padroni, gridavano: “Viva
Radetzsky”, “Viva il Papa”,
“Morte ai sciori”, e così via. E
più ancora, tutto il decennio degli anni Ottanta, anni che peggiorano
ulteriormente le condizioni di vita dei contadini, fu costellato da rivolte
contadine, sempre represse sanguinosamente. Pensiamo al cosiddetto movimento
della “Boje”, termine dialettale
mantovano che sta ad indicare metaforicamente che “la rabbia bolle”,” la
nostra rabbia è incontenibile, non ne possiamo più”. Così pure avviene
nelle campagne dei nostri paesi: pensiamo alla rivolta dell’1889, in cui la
parola d’ordine è “El va ‘l caldàr”.
Tutto
questo testimonia appunto il profondo malessere e il grave disagio in cui si
trovavano i nostri contadini.
Significativo
a tal proposito è un documento delle autorità di governo, spaventate da queste
frequentissime agitazioni contadine che avevano un carattere tumultuario, che
potremmo definire di “jaquerie” perché erano un moto spontaneo, quasi
istintivo, avevano cioè l’aspetto della sollevazione spontanea di chi diceva
“non ne possiamo più”. Naturalmente le autorità di governo erano molto
impressionate e spaventate e l’atteggiamento che in genere assunsero non fu di
comprensione o di riflessione storica sul “perché?”, ma fu
l’atteggiamento di chi, spaventato, pensava soltanto a reprimere queste
manifestazioni.
Regia
intendenza del circondario di Gallarate - Ufficio di Sicurezza Pubblica
Gallarate
29 luglio 1860
“Ai Signori sindaci del circondario
In alcuni comuni di questo circondario si manifestò un’agitazione fra
i contadini i quali vorrebbero, col tumulto e colla violenza, imporre ai
proprietari una riduzione dei fitti delle
mezzadrie ed un aumento dei salari. Qualunque possa essere la condizione
economica delle classi agricole essa non vale a giustificare l’agitazione
siccome, evidentemente, non ne spiegherebbe il subito destarsi in punti distanti
e diversi fra loro. Il governo con attività indefessa ricercherà le nascoste
cagioni di questi moti ma, con pari energia, è risoluto a reprimere e a
prevenire la propagazione di un male che avrebbe necessariamente i più funesti
effetti. Non è d’uopo che il sottoscritto vi dimostri, signor sindaco,
l’ingiustizia delle pretese di quelli che vorrebbero con la
violenza restringere il diritto di proprietà né la lor follia
nell’impiegare mezzi che avrebbero per inevitabili conseguenze di peggiorare
la loro sorte. Ella farà dunque conoscere a tutti i proprietari del suo comune
come il governo sia risoluto a proteggerli con tutti i mezzi dei quali dispone e
non lascerà impunito qualunque attentato contro i loro diritti, nei quali vede
il più solido fondamento della società e dello Stato. Simili segni dovranno
essere manifestati ai contadini ai quali ella procurerà di fare intendere la
immoralità delle massime colle
quali si vorrebbe fuorviarli e la spaventosa miseria che sarebbe, a loro
derisione, il loro castigo. Quando poi si manifesti qualche sintomo di
agitazione, ovvero si annunci un prossimo disordine o questo scoppi improvviso,
ella ne riferirà allo scrivente col mezzo più spedito, indicandogli la natura
del disordine, l’entità della forza necessaria a prevenirlo o
a reprimerlo. Il governo dispone di forze più che sufficienti a mantenere
inviolati l’ordine e il diritto di proprietà; esso ne farà uso
inesorabilmente per salvare la società minacciata, la fama della patria nostra
compromessa. Qualunque sia la condizione nella quale ella possa trovarsi facendo
il suo dovere e conformandosi alle disposizioni ed al senso della presente
circolare ella può contare sull’appoggio del sottoscritto, sulla più
efficace tutela del governo.
L’intendente Incisa
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