La
grande depressione e i primi esodi migratori
–
Le
mete dei cuggionesi in America

di
Gianfranco
Galliani Cavenago
Il
4 giugno 1898 il sindaco di Cuggiono, Luigi Bossi, inviava al sottoprefetto di
Abbiategrasso una circostanziata relazione riservata in cui metteva in risalto
le caratteristiche economiche e sociali del borgo da lui amministrato. Erano i
giorni in cui vigeva ancora in tutta la provincia di Milano lo stato d’assedio
decretato da Bava Beccaris e il sindaco Bossi, nella evidente preoccupazione
di tutelare il buon nome dei suoi concittadini e di tranquillizzare il
sottoprefetto, sottolineava l’operosità
dei cuggionesi,
estranei a qualunque idea sovversiva, e scriveva:
Le
condizione economiche delle classi lavoratrici sono in questo comune
generalmente buone. Le famiglie dei contadini, in specie nella grandissima
maggioranza, possiedono qualche risparmio che non di rado arriva a parecchie
migliaia di lire, per lo più in libretti di risparmio, frutto dello spirito d’intraprendenza
che anima questi terrieri, i quali per la loro laboriosità e per una speciale
attitudine ai lavori faticosi inerenti alle pubbliche costruzioni di ferrovie,
ponti, miniere, si conquistarono una certa nomea, talché la loro opera è
sovente richiesta per imprese di pubbliche costruzioni, per lavori tanto in
Italia che all’estero. Al benessere relativo contribuì moltissimo l’emigrazione
temporanea alle Americhe, ove trovavano occupazione nei lavori minerari,
retribuite con mercedi molto superiori a quelle sperabili in patria. Prova a
tale benessere ne è il capitale abbastanza vistoso depositato presso la
locale cassa filiale di risparmio (oltre 3 milioni) pressoché tutto
appartenente alle famiglie dei contadini ed il continuo aumento del numero
delle piccole proprietà fondiarie, venendo in parte i risparmi impiegati in
acquisto di terreni che si coltivano dagli stessi acquisitori e loro famiglie.
La
relazione del sindaco Bossi non è certo l’unica testimonianza che ci parla
della diffusa pratica migratoria dei cuggionesi. Di queste testimonianze ne
esistono parecchie altre, ma quella del Bossi ci pare particolarmente
interessante, in quanto ci presenta una figura
dell’emigrante assai lontana dallo stereotipo del
contadino miserabile,
che, costretto dalla miseria, abbandona il proprio paese per approdare, ancor
più solo e sradicato, in un ambiente nuovo ed ostile, divenendo facile preda
di spregiudicati sfruttatori.
L’emigrante
cuggionese - ma il discorso lo possiamo estendere ai tanti emigranti
inverunesi, robecchettesi, bernatesi e turbighesi - non è dunque il disperato
che viene a trovarsi in situazioni che non padroneggia né rientra nei canoni
di quella letteratura sull’emigrazione, che potremmo definire vittimistica o
filialpietista, come ama dire il professor Vecoli.
L’emigrante
cuggionese - e non abbiamo motivo di dubitare della realistica
rappresentazione che ne fa il sindaco Bossi - è una sorta di professionista
del lavoro migrante, è addirittura un pendolare che si muove regolarmente e
con sicurezza tra il proprio paese e il continente americano e che in modo
molto pragmatico e sulla scorta di una collaudata strategia familiare ove sono
soppesati i costi e i benefici, utilizza razionalmente le opportunità offerte
dal mercato del lavoro americano e le piega ai suoi progetti.
L’esperienza
migratoria dei cuggionesi era d’altronde di vecchia data, e si era
consolidata già nei decenni preunitari, quando - come abbiamo ascoltato dalla
relazione di Scotti - Ercole Belloli li coinvolse nella sua attività
imprenditoriale, impegnandoli nei cantieri nazionali ed europei ove si
costruivano ferrovie e si realizzavano importanti opere pubbliche. Una
esperienza, quella, che si rivelò come utilissima propedeutica, sviluppata
poi nel corso degli anni successivi come pratica sempre più diffusa, tanto da
coinvolgere quote sempre più consistenti di popolazione del paese. Ed a
riprova di ciò ci soccorre la testimonianza di Rinaldo Anelli. Il parroco di
Bernate, nella sua monografia dedicata alle classi agricole del circondario di
Abbiategrasso, poi inserita nei volumi dell’inchiesta agraria Jacini, si
soffermava infatti sulle pratiche migratorie dei cuggionesi e scriveva:
Il
comune di Cuggiono è quello che in tutto il circondario dà il maggior numero
di emigranti temporanei; non meno di 900 uomini e giovinotti partono ogni anno
nel mese di febbraio per la Francia o per la Germania, o per dove insomma
sanno esservi lavoro e là si fermano fino alla fine di ottobre, nella qual
epoca ritornano portando a casa discrete somme di denaro
Nel
corso degli anni ‘60, accanto ai tradizionali flussi migratori di carattere
stagionale cominciarono però ad affiancarsi destinazioni di tipo nuovo;
destinazioni che avevano come meta soprattutto l’Argentina, e chi partiva
dirigendosi verso il continente latino-americano lasciava nella maggior parte
dei casi il proprio paese in modo definitivo. Ad aprire queste nuove rotte
furono soprattutto i contadini lombardi e in prima fila troviamo i coloni dei
nostri paesi e della campagna gallaratese. Esodi piuttosto consistenti -
bisogna dire - che suscitarono tra i proprietari grande allarme e non poche
preoccupazioni. Chi manifestò in modo aperto e non senza clamore queste
preoccupazioni fu Ercole Lualdi, un industriale cotoniero di Busto Arsizio,
deputato al parlamento nazionale. Lualdi, intervenendo alla camera nella
seduta del 30 gennaio 1868 mentre si discuteva il bilancio del Ministero di
agricoltura, industria e commercio, si rivolse al governo per denunciare un
fenomeno dalle dimensioni, a suo dire, «veramente rattristanti», ed a
sostegno di ciò menzionava le migliaia di contadini del suo collegio fuggiti
in America; svolgendo la sua interpellanza chiedeva poi al Ministero che
indagasse sulle cause di tale movimento, «per vedere - dichiarava - se si
può diminuirne le proporzioni», poiché, asseriva ancora il deputato bustese,
non
è confortante né è buono per la causa politica del nuovo regno d’Italia
il fenomeno a cui tristamente assistiamo di moltissimi cittadini costretti
dalla fame ad emigrare. Né pensi la Camera - proseguiva affermando - che sia
per vaghezza di far fortuna se questa gente espatria. Questa gente se ne va
piangendo e maledicendo ai signori e al governo. Sono terribili imprecazioni
che contristano chiunque le oda.
Lualdi
metteva dunque in evidenza il carattere sostanzialmente contestativo di quei
primi esodi (i contadini che partivano maledicendo i signori e il governo),
causa la miseria e le condizioni di vita insopportabili.
Un
linguaggio crudo, quello dell’industriale bustese, spiccio e persino un po’
brutale per la rude franchezza del tono, ben diverso da quello rassicurante e
positivo usato dal sindaco Bossi: ambedue si soffermavano sullo stesso
problema, ma gli approcci apparivano oltremodo distanti. Bisogna però
precisare che l’interpellanza del Lualdi e la perorazione del sindaco di
Cuggiono erano separate da alcuni decenni di distanza, un lasso di tempo in
cui la questione migratoria aveva preso l’abbrivio di un lungo e contrastato
dibattito, nel quale s’erano affacciati interpretazioni e punti di vista
diversi. Alla sequela di recriminazioni e di censure alle quali aveva dato la
stura l’interpellanza parlamentare del Lualdi, era poi subentrato un
atteggiamento di fatalistica accettazione del fenomeno, tradotta, in
successione, nella manifesta approvazione di Sidney Sonnino e di Luigi
Einaudi, apologeti dichiarati della pratica migratoria. Se per l’esponente
politico toscano le fughe dalle campagne costituivano una insperata «valvola
di sicurezza», utile a contenere e a stornare la protesta sociale, per lo
studioso piemontese l’emigrazione, con la promozione delle numerose colonie
stanziate nel continente americano, rappresentava una realtà positiva,
fautrice di espansione commerciale e di penetrazione dei manufatti industriali
nei mercati del nuovo mondo.
L’imponente
fenomeno migratorio che ha segnato la storia dell’Italia moderna fu ad ogni
modo vicenda complessa, ed allora come oggi, si presenta agli studiosi come un
dramma dalle molte facce, suscettibile di diverse letture.
Intanto
le fughe dalle campagne, lungi dallo spegnersi, divennero col tempo sempre
più consistenti, per diventare fenomeno incontenibile ed allarmante nel corso
degli anni ‘80, inizio di quella che, per definizione, è stata chiamata la
“grande emigrazione” per eccellenza: un movimento che nell’arco di un
quarantennio (a partire cioè dal 1876, anno in cui si cominciò ad effettuare
un primo censimento degli espatri) fino alla vigilia della prima guerra
mondiale ha visto espatriare ben 14 milioni di italiani, di cui 5.700.000
approdati negli Stati Uniti.
A
pagare un alto tributo migratorio furono anche i paesi del mandamento di
Cuggiono. Le dimensioni dell’esodo sono nelle statistiche ministeriali e
presentano, per quanto riguarda gli espatri avvenuti nel periodo 1882-1889, il
numero complessivo di 5621 partenze, di cui 1598 nella sola Cuggiono. Un fenomeno dalle dimensioni notevoli, se consideriamo che la
popolazione complessiva del mandamento era allora di circa 30.000 abitanti. E
risulta ancor più notevole se pensiamo che quelle cifre erano decisamente
sottostimate, poiché prescindevano dalla robusta componente di emigrazione
clandestina e dai tantissimi emigranti che partivano dai porti esteri - Le
Havre, soprattutto - e non conteggiati. Cuggiono, che registrava ogni anno un preoccupante decremento
della popolazione residente, annoverava all’estero alla vigilia della prima
guerra mondiale ben 2500 emigranti, 2000 dei quali, come testimonia il parroco
di allora, residenti in America e 500 sparsi nei vari paesi del nord Europa.
Si
emigrava anche - è il caso di ricordarlo - per sfuggire alla lunga e pesante
leva militare e la documentazione che sta nei nostri archivi comunali contiene
numerosissimi elenchi di giovani che espatriavano per sottrarsi a questo
obbligo, imbarcandosi per l’America.
La
renitenza alla leva, attuata con l’espatrio, suscitò non poche
preoccupazioni e mise in frequente allarme anche le autorità di governo: «L’emigrazione
di coloro che sono vincolati al servizio militare (così il sottoprefetto di
Abbiategrasso in una delle tante circolari dello stesso tenore diramata ai
sindaci del circondario nella primavera del 1888) si mantenne continua ed
estesa, poiché ricorrono all’emigrazione clandestina, prendendo imbarco in
porti esteri»; ed alla deplorazione seguiva l’invito rivolto agli
amministratori locali affinché si impegnassero ad una maggior vigilanza al
fine di stroncare una diserzione
che tendeva a consolidarsi e a diventare una pratica di massa.
Ma
per comprendere le ragioni che spinsero milioni di uomini e di donne a dare
con l’espatrio una svolta così radicale alla loro vita, dobbiamo
necessariamente far riferimento all’Italia di quel tempo, volgendo però lo
sguardo anche ai paesi d’arrivo, alla società nordamericana in primo luogo,
e ai caratteri attrattivi della sua economia.
Possiamo
comunque preliminarmente affermare che la grande emigrazione italiana (ma il
discorso vale in generale anche per l’emigrazione europea sviluppatasi lungo
tutto il corso dell’800) va inquadrata nel contesto della grande
trasformazione capitalistica, segnata - in una situazione di espansione
demografica - dal decollo della produzione industriale, che impose, con il
ridimensionamento del ruolo dell’agricoltura, un drastico sfoltimento della
popolazione rurale che su di essa era occupata.
L’Italia,
al momento della conquista dell’indipendenza e dell’unificazione
territoriale, non poteva certo dirsi un paese progredito; possiamo anzi dire
che era un paese decisamente arretrato, sia dal punto di vista economico, che
sul piano civile; una arretratezza che si esprimeva d’altronde con
indicatori molto eloquenti; dalle aspettative di vita mediamente molto basse
(40 anni per gli uomini, 34/35 per le donne); ad un’altissima mortalità
infantile (5 bambini su 10 morivano senza aver raggiunto il quinto anno d’età);
per non parlare poi dell’analfabetismo, calcolato intorno al 74%; e così
per le situazioni abitative ed ambientali impregnate di morbilità e ad alto
rischio patogeno. Si pensi alle numerose e vaste aree malariche del paese;
alle periodiche epidemie di colera, alla endemia pellagrosa che devastava la
vita delle popolazioni del centro-nord d’Italia; si pensi infine alla
malnutrizione e alla denutrizione croniche cui erano soggette le popolazioni
contadine.
Né
poteva dirsi rassicurante la situazione sul piano economico generale: l’Italia
era allora un paese eminentemente agricolo ed il 70% della popolazione attiva
era occupata nelle attività rurali. Ma era, salvo alcune positive eccezioni,
un’agricoltura in buona misura premoderna, precapitalista, con indici di
bassa produttività, che a malapena garantivano la sussistenza di una
popolazione fortemente addensata e tendeva a premiare più la rendita che gli
investimenti e i profitti.
Sul
versante finanziario vi era poi uno stato fortemente indebitato. I nuovi
governi della Destra, oltre ai costi della guerra e all’assunzione delle
passività dei vecchi stati regionali, s’erano fortemente esposti con nuovi
prestiti, contratti soprattutto sulle piazze francesi e reperiti per
finanziare la costruzione delle ferrovie nazionali. In tale situazione i
governi reagirono, come è noto, col varo di una politica tributaria
fortemente onerosa. Si pensi all’imposta sulla ricchezza mobile che colpiva
le attività commerciali e industriali; si pensi soprattutto alla odiosissima
imposta sul macinato (l’imposta che costò lacrime e sangue), che colpiva
tutti i cereali, che costituivano - soprattutto il mais - la base alimentare
delle classi popolari.
D’altra
parte, neppure quando alla fine si raggiunse faticosamente il pareggio di
bilancio, la situazione - soprattutto per quanto atteneva le condizioni di
vita delle classi popolari - mutò granché.
La
situazione generale non era delle più propizie e l’economia europea, a
partire dal 1873, era entrata in una fase di grave recessione, una recessione
riconducibile essenzialmente ad un eccesso di capacità produttiva. Era l’inizio
della “grande depressione”, quel ciclo economicamente negativo, che si
sarebbe prolungato con fasi alterne, sin quasi alla fine del secolo. Era, come è stato da più parti riconosciuto, la prima classica
crisi di un capitalismo approdato nella fase di maturità, una crisi
determinata da una abbondanza di merci, manufatti e capitali, sviliti nei
prezzi ed irretiti in un mercato nazionale ormai saturo. Ne seguì una ricerca
affannosa di nuovi sbocchi, una ricerca che verrà poi perseguita, manu militari, nella corsa verso le colonie e nella costruzione dei
grandi imperi mercantili. Il corollario fu la svolta protezionistica, che pose
fine alle pratiche libero-scambiste della circolazione delle merci e della
libera concorrenza. Ma se nei paesi europei industrialmente avanzati la
depressione si manifestò con una caduta dei prezzi dei manufatti industriali,
in Italia il fenomeno assunse essenzialmente le forme di una gravissima crisi
agraria, causata da una vertiginosa caduta dei prezzi delle derrate agricole.
Il crollo derivò, come è noto, dall’ingente afflusso dei grani americani,
prodotti nelle nuove terre vergini e trasportati a costi notevolmente
ribassati in virtù della navigazione a vapore.
Nel
tentativo di reggere ai prezzi concorrenziali dei cereali americani, una
minoranza di agricoltori puntò sulla trasformazione foraggera e sulla
meccanizzazione, introducendo le macchine agricole, altri, e furono
sicuramente i più, cercarono riparo sotto l’ala protettiva dei dazi
doganali e imponendo ai propri contadini (col pane che era diventato
artificialmente più caro) un inasprimento delle relazioni di lavoro e dei
regimi contrattuali. Ai contadini, oberati da patti sempre più pesanti e
vessatori, non restò che la ribellione; una ribellione che nel corso degli
anni ‘80 e ‘90 percorse endemicamente le campagne d’Italia, non
risparmiando neppure la Lombardia. Ed anche gli esodi di massa, che non a caso si intensificarono
proprio nel corso di quella congiuntura, furono indirettamente una forma di
protesta e di ribellione.
Ed
è proprio agli inizi degli anni ‘80 che ripresero a partire anche i
cuggionesi, e lo fecero inaugurando le nuove rotte per l’America. Puntarono
sugli Stati Uniti, ma non si fermarono a New York, come facevano i più,
preferendo invece inoltrarsi nelle regioni dell’interno. Alcuni si
urbanizzarono a Detroit, adattandosi prima ai più disparati mestieri ed
impiegandosi poi nei centri siderurgici della Ford; altri preferirono
dirigersi verso i centri minerari di Iron Mountain; altri ancora approdarono
invece a Herrin e a Joliet, nell’Illinois, mentre consistenti contingenti di
castanesi, magnaghesi e lonatesi optarono per la California, fondando le
colonie stabili di St. Raphael e di San Luis Obispo; altri ancora si spinsero
a nord della costa occidentale, organizzandosi nella comunità di Walla Walla
nello stato di Washington.
Il
contingente più numeroso, composto da cuggionesi ed inizialmente orientato
verso le miniere di piombo del Missouri, optò invece (forse allettato da più
alti salari) per St. Louis, nel Missouri, costituendo così il primo nucleo di
una colonia lombarda che si sarebbe nel corso degli anni progressivamente
sviluppata con l’arrivo di altri immigrati provenienti dai paesi del
mandamento.
Centro
di grandi traffici fluviali, St. Louis era per molti versi ancora una città
francese, con una tradizione cosmopolita e multietnica, che nel passato aveva
anche accolto esperimenti comunitari fondati su un forte spirito egualitario.
Una città accogliente, dunque, assai diversa dagli ambienti sicuramente più
ostili delle grandi città della costa orientale. Nella città, dove nei
decenni precedenti si erano già stanziati gruppi di genovesi esercitando
attività di piccolo commercio, vi era anche una numerosa comunità di
tedeschi, che non mostrò però di gradire l’arrivo dei nuovi venuti, ma i
nostri compaesani, che avevano trovato subito lavoro nelle cave d’argilla e
nelle fornaci di mattoni, decisero di fermarsi. Si stabilirono a Cheltenham,
una zona situata a sud-ovest della città, e che i nativi battezzarono subito
con un termine spregiativo Dago Hill,
la collina degli italiani, e Dago Hill
rimase, così come ancor oggi viene denominata. La colonia, da sparuti gruppi
di pionieri, divenne quindi nello spazio di alcuni decenni una solida e ben
organizzata comunità di 3200 abitanti, composta per 2/3 da lombardi e da 1/3
da siciliani, sopraggiunti più tardi. Il sobborgo di Dago Hill, scriveva Amy
Bernardy colpita dalla singolarità del quartiere composto da ordinate casette
di legno con verande fiorite è,
un
vero ed esemplare villaggio italiano, nonostante i suoi 18 saloni, dove specie
tra i settentrionali, si fa un consumo enorme di birra. Però non
succede mai questione o fermento: tutt’al più si levano canti a
squarciagola nelle sere domenicali, quando, essendo chiusi i saloni si
provvede il “keg” di birra in precedenza e gli si dà la stura nella iarda.
Dietro
gli aspetti positivi delineati dalla Bernardy, c’erano - va detto - i
conflitti regionali tra lombardi e siciliani che dividevano la comunità. La
società di mutuo soccorso denominata Nord
Italia Americana, escludeva tassativamente l’adesione dei siciliani, un
sentimento peraltro ricambiato dai meridionali e ben espresso anche da un
periodico locale, il quale non perdeva occasione per mettere alla berlina la
rozzezza e l’analfabetismo dei lombardi. E questo regionalismo spinto, talvolta venato di razzismo lo
riscontriamo in tutte le comunità italiane. La società di mutuo soccorso di
Detroit, fondata dai cuggionesi, non si peritava di nascondere la propria
avversione per i connazionali del Meridione d’Italia e nello statuto
rimarcava che al sodalizio poteva aderire «qualunque lombardo di sesso
maschile o discendente di genitori lombardi e che sia di razza bianca».
Ci
furono, dunque, per tornare alle cause generali di quelle prime ondate
migratorie, pesanti fattori espulsivi, rappresentati da una miseria divenuta
insostenibile e solo in un secondo tempo le vittime sacrificali di quella
pesante congiuntura affinarono, come da tempo avevano fatto i cuggionesi,
delle vere e proprie strategie migratorie.
Intanto
però pagavano un prezzo assai pesante. Lo pagavano in primo luogo a quell’esercito
di agenti e subagenti (in Italia se ne calcolarono più di 20.000), che con il
riconoscimento della legge Crispi, cominciarono a fare incetta di emigranti
per conto delle compagnie di navigazione e delle compagnie ferroviarie e
minerarie nordamericane. L’emigrazione divenne allora un grande affare che
si tinse frequentemente di dramma e di sinistri aspetti speculativi.
Sui
raggiri di cui furono vittime i contadini italiani ne sono piene le cronache
del tempo e se ne potrebbe fare un lungo elenco. Per tutti valga la vicenda
legata ad un progetto di colonizzazione agricola in Messico che coinvolse
diverse centinaia di contadini lombardi.
Il
progetto varato dal governo messicano prevedeva la creazione di 6 colonie da
insediarsi negli stati di Morelos, di Puebla e di San Luis Potosi. Per l’ingaggio
dei coloni le autorità messicane si affidarono ad agenti di emigrazione
genovesi e livornesi. Costoro valendosi dell’opera di spregiudicati
faccendieri attivarono nei paesi del Legnanese (soprattutto a San Vittore,
Solbiate e Olgiate Olona) una campagna di reclutamento in grande stile,
promettendo ai contadini favolosi e rapidi guadagni. Riuscirono alla fine a
reclutarne circa 600. Inutile dire a quale amara disillusione andarono
incontro. Partiti da Legnano per Genova nel gennaio 1882 e imbarcati per Vera
Cruz, dovettero poi affrontare un terribile viaggio, durante il quale
trovarono la morte per dissenteria 12 bambini. Il progetto di colonizzazione,
com’era naturalmente da prevedersi, varato con superficialità dal governo
messicano e ancor peggio gestito, si concluse poi con un sostanziale
fallimento e con la rovina dei contadini adescati dagli speculatori.
Per
quanto riguardava la politica migratoria, lo Stato era invece completamente
assente ed anche la prima criticatissima legge varata da Crispi nel 1888 mosse
dalla preoccupazione di tutelare un ordine pubblico minacciato piuttosto che
ad assicurare forme di assistenza.
Un
approccio più corretto con il problema venne soltanto con l’approvazione
della legge 31 gennaio 1901, voluta soprattutto da Luigi Luzzatti e da Edoardo
Pantano. La legge, oltre a sopprimere la funzione degli agenti di emigrazione,
istituiva il Commissariato generale dell’emigrazione posto alle dipendenze
del Ministero degli esteri con funzioni di assistenza e di controllo;
stabiliva il prezzo massimo dei noli e controllava mediante il rilascio di una
patente, l’attività degli armatori, affidando ai comitati comunali la
vigilanza sulla vendita dei biglietti d’imbarco. Una legge sicuramente
migliorativa rispetto al passato, ma gli effetti positivi cominciarono a
delinearsi solo alcuni anni più tardi. Nel frattempo chi pensava ad assicurare un minimo di assistenza
erano la Chiesa, con l’ordine degli scalabriniani in prima fila, ed alcuni
sodalizi d’orientamento massonico e socialista, come l’Umanitaria di
Milano.
Se
le campagne italiane tendevano ad espellere quote consistenti di popolazioni
contadine divenute esuberanti, viceversa il continente americano esercitava
una irresistibile forza d’attrazione. L’America era vista e decantata come
la terra delle grandi opportunità e dei rapidi arricchimenti e sull’onda di
questo mito, costruito da una propaganda battente ed incessante, si sviluppò
un crescendo di esaltazione collettiva. Se sull’economia europea
continuavano a gravare gli effetti della grande depressione, viceversa l’economia
americana attraversava in quel periodo una fase di straordinaria espansione.
Con la fine della guerra civile era
innanzitutto ripresa con slancio la corsa alla colonizzazione delle terre ad
ovest del Mississippi. Era la corsa verso la mitica frontiera celebrata da
Frederick Turner, quella linea mobile che avanzava trasformando gli europei in
americani e riempiva lo spazio vuoto di colonie di popolamento favorite dalla
legge voluta da Lincoln, l’Homestead act (letteralmente, casa con terreno
annesso), che prevedeva l’assegnazione della terra ad un prezzo puramente
nominale. Terre che si rivelarono poi fertilissime e gestite con una
meccanizzazione (la celebre mietitrebbia Mc Cormick) che in Europa era
pressoché sconosciuta.
Ma
la grande rivoluzione avvenne sicuramente nel campo dei trasporti: si pensi ai
battelli a vapore che da New Orleans risalivano il Mississippi e ai traffici
commerciali che si svilupparono su quella importante linea fluviale. Ma più
ancora si consideri l’impulso che ebbe il trasporto ferroviario. «La storia
economica americana - ha scritto Joseph Schumpeter - può essere scritta come
storia delle costruzioni ferroviarie e dei loro effetti». Nel 1869 la Central Pacific e la Union Pacific aprirono ai
traffici la prima grande linea ferroviaria che attraversava da est a ovest il
continente americano. Seguirono nello spazio di pochi anni l’ultimazione
della Northern Pacific che attraversava le regioni a nord degli Stati Uniti e
la Southern Pacific negli stati del sud. Nel 1909 il continente americano era
intersecato da una fittissima rete ferroviaria, lunga complessivamente 240.000
miglia, tutta realizzata da compagnie private con il generoso sostegno della
stato federale.
La
grande espansione economica del paese nordamericano si giovò nondimeno di una
forte spinta alla innovazione tecnologica, ispirata alla standardizzazione
produttiva e alla intercambiabilità delle singole parti di una macchina che
consentiva di sostituire il tradizionale montaggio ad alto contenuto di
specializzazione con il semplice assemblaggio eseguito da operai generici. E
così nel campo dell’organizzazione scientifica del lavoro, dapprima
sperimentata nei mattatoi di Chicago e poi messa a punto da Henri Ford con la catena di montaggio,
organizzata secondo il criterio di far muovere il lavoro, tenendo fermo l’operaio
su un’unica e ripetitiva mansione.
Le
cause che mossero il grande movimento migratorio dall’Italia e dal sud d’Europa,
sono quindi da ricondurre nel contesto di questa nuova, dinamicissima
economia.
Il
lavoro industriale era stato enormemente semplificato ed i padroni americani
tendevano ad accantonare il tradizionale lavoro specializzato, appannaggio
delle maestranze d’origine inglese e tedesche, per sostituirlo con
manovalanza generica. Rigidamente protezionisti per quanto riguardava la
importazione delle merci straniere, erano però altrettanto rigidamente
attestati sul principio della libera circolazione della manodopera. Essi
volevano soprattutto manovalanza generica, sindacalmente docile e sprovveduta
e misero in campo tutto il loro potere e la capacità d’iniziativa per
favorire l’afflusso di lavoratori italiani.
Chi
contrastò fieramente questa politica migratoria furono invece - e la cosa
può forse sorprendere - le Unioni operaie, inquadrate nella Federazione
americana del lavoro di Samuel Gompers. Era - il sindacato di Gompers - un sindacato esclusivo,
fortemente corporativo, sempre teso a tutelare gli interessi della manodopera
qualificata che rappresentava, e guardava agli immigrati analfabeti e
sprovveduti che provenivano dall’Italia come a dei temibili concorrenti,
fautori di un abbassamento dei salari e propensi al crumiraggio. Non a caso i
sindacati americani, con Gompers in testa, furono i principali ispiratori di
tutte le leggi restrizioniste varate dal Congresso americano e che a partire
dal 1882-85, fino ai provvedimenti del 1921-24, scandirono, nel tentativo di
limitarle sempre più, le correnti migratorie che provenivano da oltre
Atlantico.
Non
ebbero dunque vita facile i nostri emigranti e non l’ebbero neppure i
cuggionesi, per quanto avvezzi e consumati fossero. L’ambiente era spesso
ostile e gli italiani dovettero subire un ostracismo alimentato da una vulgata
che arrivò a qualificarli come “popolo indesiderabile” per eccellenza.
Una ostilità xenofoba, spesso alimentata dai fautori della purezza nativista,
che si fondava sugli stereotipi più vieti e volgari e che
si manifestava col volto sinistro
del Ku Klux Klan, oppure ancora,
come accadde coi noti fatti di New Orleans e di Tallulah e in tanti altri
luoghi, nella forma violenta della giustizia sommaria e del linciaggio.
Tra
le tante critiche che l’opinione conservatrice americana rovesciò sui
nostri connazionali spiccava quella che accusava gli italiani d’essersi
eccessivamente inurbati, adattandosi a vivere nei quartieri degradati delle
grandi città, rifiutando il lavoro nell’agricoltura a loro più congeniale.
La critica a prima vista poteva sembrare anche fondata, se consideriamo che la
maggior parte dei nostri emigranti erano appunto contadini. Ci si dimenticava
però del fatto che quando gli italiani giunsero in America la colonizzazione
della frontiera s’era ormai conclusa e che le poche terre disponibili, per
lo più di proprietà delle compagnie ferroviarie, erano terre tra le più
povere e marginali, acquistabili oltretutto a caro prezzo. Per impiantare una
azienda occorrevano dei capitali che i nostri emigranti non possedevano,
dacché partivano dall’Italia con somme modeste, talvolta appena bastanti
per il viaggio. Un progetto di colonizzazione agricola per essere attuato,
così com’era stato per i contadini tedeschi e scandinavi, aveva bisogno del
sostegno politico e dei capitali della madre patria,
che per gli italiani non ci furono mai; e i pochi episodi in cui i
nostri contadini furono coinvolti in progetti di colonizzazione, come quello
legato alla vicenda dei contadini veneti trasportati in Brasile nelle
piantagioni di caffè, si rivelarono poi dei tragici fallimenti. Occorre però aggiungere che anche i nostri contadini,
imbarcandosi per l’America, non pensavano di esercitare il lavoro svolto in
patria: molti dei nostri emigranti, così com’era nella tradizione, erano
“uccelli di passaggio”, pensavano cioè a soggiorni temporanei, il tempo
necessario per accumulare un piccolo capitale ( e quasi sempre lo fecero a
costo di privazioni incredibili), un capitale - pensavano - che doveva essere
investito in patria, con l’acquisto della terra e della casa. Molti dei
nostri connazionali trasformarono poi, quello che doveva essere un soggiorno
temporaneo, in residenza definitiva, trovando occupazioni ben remunerate, ma
ciò non smentisce quanto detto.
Dinanzi a questa ostilità diffusa, gli immigrati italiani fecero
allora gruppo, rifugiandosi nella calda paesanità dei loro circoli e delle
numerose società di mutuo soccorso disseminate nelle tante città degli Stati
Uniti. Le Piccole Italie offrivano
una rassicurante protezione e la sensazione di “essere a casa”, ma
tendevano inevitabilmente ad assumere le forme del ghetto; si conservavano le
tradizioni e gli idiomi locali, ma con la tutela della specificità etnica e
linguistica si perpetuavano nel contempo situazioni di deplorevole isolamento.
Fuori
dai ghetti urbani delle grandi città, c’era il lavoro nelle ferrovie,
lavoro massacrante e svolto in luoghi di estrema inospitalità. Oppure, come
scelse la maggior parte dei nostri compaesani, c’era il lavoro in miniera.
Lavoro ben pagato, ma svolto in condizioni durissime e frequentemente esposto
alla violenza dei sorveglianti, inclini a considerare i liberi lavoratori alla
stregua di schiavi, irretendoli, come accadde in non pochi casi, in situazioni
di peonage o lavoro coatto. Il lavoro in miniera era anche oltremodo pericoloso. Le compagnie
proprietarie non si curavano della sicurezza, considerandola un problema degli
operai: da qui il lungo, interminabile elenco di incidenti mortali che
coinvolsero molti italiani, come anche diversi nostri concittadini di
Cuggiono, di Turbigo, di Robecchetto, di Magnago e dei quali gli archivi
conservano ancora una dolorosa memoria.
Oggi,
nel momento in cui ci stiamo trasformando in paese importatore di manodopera
straniera, riscopriamo, forse tardivamente, le vicende legate alla nostra
emigrazione nazionale. Una storia vissuta nel silenzio, fatta di oscuro
eroismo e con i tratti dell’epopea, dove i successi, che non mancarono, si
sono talvolta intrecciati con le stigmate del dramma, fatto di duro lavoro, di
sfruttamento, di umiliazioni e di lancinanti spaesamenti, culminati talvolta
nella follia. Una storia, che per un sentimento di vergogna e un malinteso
senso della dignità, è stata a lungo rimossa o penosamente alterata nel suo
significato. Ma l’Italia di oggi, con i livelli di benessere raggiunti e i
traguardi economici conseguiti non sarebbe nemmeno lontanamente pensabile
senza quella storia. Abbiamo quindi un debito nei confronti dei nostri
emigranti, e il modo migliore per onorarlo può essere quello di indagare
questa storia, di studiarla, di conoscerla e di accettarla finalmente senza
remore, poiché - ci piaccia o meno - è stata un grande evento e resta parte
integrante della storia del nostro Paese.