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Rudolph J. Vecoli (*)
1. Emigrazione di élite, emigrazione politica, emigrazione di massa.
Nel 2000 quasi sedici milioni di americani hanno dichiarato di avere antenati italiani [1] : gli italo-americani di oggi discendono da circa sei milioni di immigrati che giunsero negli Stati Uniti nel corso di un secolo e mezzo (1850-2000). Solo una minima parte di loro potrebbe far risalire l'origine del proprio albero genealogico al periodo ancora precedente al XVIII secolo. Pur essendo in numero esiguo, questi primi immigrati, mercanti, artigiani e artisti lasciarono una traccia nella cultura americana che andava allora sorgendo. Benché meglio conosciuto come filosofo politico, Filippo Mazzei, incoraggiato in tal senso da Thomas Jefferson, piantò viti, limoni e olivi nella colonia della Virginia. Fu lui il predecessore dei molti immigrati italiani che un secolo dopo avrebbero creato vigneti e aziende vinicole in California. Altri, maestri di danza, insegnanti di lingua e musicisti, come Gaetano Franceschini, introdussero l'elite sociale coloniale alla cultura italiana [2] . Alla metà del XIX secolo, centinaia di rifugiati politici, fuoriusciti a seguito del fallimento delle insurrezioni per l'Unità nazionale italiana, cercarono riparo negli Stati Uniti. Tra di loro c'era lo stesso Giuseppe Garibaldi. I fuoriusciti politici venivano ad aggiungersi a un numero crescente di artigiani, venditori ambulanti di frutta, artisti di strada (fra i quali i «piccoli schiavi dell'arpa») [3] e, figurinai [4] provenienti dai paesi collinari della Toscana che producevano e vendevano statue di gesso nelle città americane. Da queste umili origini si sono sviluppate grandi aziende di produzione di statue come, ad esempio, la ditta Da-Prato di Chicago. Artisti, musicisti e esponenti del mondo letterario, quali Lorenzo da Ponte, il librettista di Mozart, e Costantino Brumidi, che ornò con i suoi affreschi il Campidoglio a Washington, portarono i loro talenti in America. Ciononostante, dal censimento statunitense del 1880 risultano solo 44 230 persone nate in Italia. Il carattere dell'immigrazione italiana subì un drastico mutamento nel corso degli anni ottanta dell'Ottocento, allorché cominciarono ad arrivare, a decine di migliaia l'anno, immigrati di origine contadina. Nell'ultimo quarto del secolo (1876-1900), nonostante la maggior parte dell’immigrazione transatlantica fosse diretta in Sud America, gli Stati Uniti accolsero circa 800.000 italiani. I primi quindici anni del XX secolo segnano il culmine dell'immigrazione italiana: circa tre milioni e mezzo di italiani sbarcarono negli Stati Uniti, in gran parte a Ellis Island, anche se il tasso di rimpatrio dagli Usa, in questi anni, si mantenne alto (50% circa). Si trattava, per lo più, di immigrati temporanei, in maggioranza giovani, maschi e di origini contadine; ma tra loro era pure presente una significativa minoranza di artigiani (meno del 20%). Pochi erano quelli che avevano una qualche istruzione o che possedevano un capitale proprio; pochissimi i professionisti e i mercanti. Benché tutte le regioni italiane fossero rappresentate, i quattro quinti circa degli immigrati italiani provenivano dal Mezzogiorno, in particolare dalla Calabria, dalla Campania, dagli Abruzzi, dal Molise e dalla Sicilia. Nondimeno, il 20% (cioè 900.000 circa) proveniva dal Centro e dal Nord Italia [5] . Erano, come abbiamo detto, per lo più uomini, compresi ragazzi di poco più di dieci anni, che emigravano in gruppi di paesani, parenti e vicini, generalmente sotto la guida di qualcuno che aveva precedentemente compiuto il viaggio. Queste golondrinas (rondini) avevano come unico scopo quello di ritornare a casa con quanti più dollari americani possibili, con cui estinguere debiti e comprare terreni. Poche famiglie compivano insieme la traversata: donne e bambini seguivano il capofamiglia solo se questi decideva di restare. Molti aspetti caratteristici dell'immigrazione italiana negli Usa - disinteresse a imparare l'inglese, lento tasso di naturalizzazione, resistenza all’assimilazione - possono essere compresi se ricondotti alla mentalità propria dell'emigrazione temporanea [6] .
2. Dalla campagna all'America.
Qualsiasi generalizzazione, com'è ovvio, non rende giustizia del carattere complesso dell'immigrazione italiana; ma queste caratteristiche degli immigrati italiani, considerate nel loro insieme, influirono sulle loro fortune in America. Nell'entrare in contatto con un'economia industriale fortemente sviluppata, pochi avevano esperienza di occupazioni non legate all'agricoltura. Fra le eccezioni si contavano tessitori provenienti dal Piemonte e dalla Toscana e minatori giunti dalle Marche, dall'Umbria e dalla Sicilia; ma pure questi tendevano a configurarsi come lavoratori proto-industriali che si dividevano tra il campo e il posto di lavoro trasferendosi stagionalmente. All'interno della forza lavoro americana, gli italiani che sopraggiungevano costituivano una sorta di Lumpenproletariat, considerato sia dai datori di lavoro che dagli altri lavoratori come manodopera di secondo ordine. Per anni, essi furono esclusi da impieghi che richiedessero minime capacità tecniche, e relegati a compiere lavori di bassa manovalanza. Come manodopera non qualificata gli italiani venivano infatti impiegati nella costruzione e manutenzione di ferrovie e fognature, oppure utilizzati per scavare tunnel, scaricare merci dalle navi e costruire città. Come osservò Frank Cava, un immigrato italiano che lavorò per più periodi come minatore, gli italiani erano esclusi da paghe più alte e lavori migliori, non solo a causa della loro mancanza di capacità tecnica, ma anche a causa del «pregiudizio razziale che è forte presso la popolazione americana» [7] . Anche emigranti con una certa educazione e discrete capacità professionali furono costretti a impugnare il piccone e la pala, dal momento che, nelle acciaierie, negli stabilimenti di inscatolamento della carne, e nelle fabbriche tessili, i datori di lavoro americani preferivano agli italiani non solo i lavoratori anglofoni, ma anche gli immigrati slavi. Anche come lavoratori non qualificati gli italiani del Sud erano all'ultimo posto nelle preferenze dei sopraintendenti alla costruzione di ferrovie, che segnalavano la loro bassa statura e la loro mancanza di forza. Un'altra ragione addotta era «il loro insuperabile spirito di clan che porta un'intera squadra ad andare via quando uno di loro viene trattato male». Nondimeno, alla fine del secolo XIX, gli italiani cominciarono a rimpiazzare gli irlandesi nei lavori di squadra per la costruzione delle ferrovie e nell'edilizia (fenomeno che costituì una fonte di conflitto inter-etnico). Nel 1900, circa metà degli italiani presenti in Usa erano impiegati come lavoratori comuni; e questa percentuale restò praticamente immutata fino alla prima guerra mondiale. A causa della sua propensione alla mobilità, e della sua forzata disponibilità a subire forme intense di sfruttamento, l'italiano pala-e-piccone divenne una figura tipica del mondo del lavoro americano [8] . Le prevalenti origini contadine rendevano gli italiani giunti in America mal preparati ad affrontare un paese, tumultuoso e brutale, così come gli Usa si presentavano all'inizio del XX secolo. Non solo l'ignoranza dell'inglese (e spesso anche dell'italiano, dal momento che parlavano generalmente in dialetto), ma la loro incapacità di comprendere gli elementi basilari della vita quotidiana in un ambiente urbano industriale li rendeva vulnerabili. Avendo bisogno di lavoro, di alloggio e di consigli, spesso si rivolgevano ad un paesano, a qualcuno che conosceva un po' di inglese e trasformava i bisogni dei suoi interlocutori in un'attività redditizia, il padrone o boss fungeva da mediatore fra gli immigrati disorientati e quel paese così estraneo. Come agente di lavoro, il padrone procurava squadre di lavoratori alle compagnie ferroviarie e agli appaltatori; come mediatore politico, scambiava i voti dei lavoratori con posti di lavoro nelle opere pubbliche. Per i suoi servizi, il padrone richiedeva il pagamento di un onorario (la bossatura), e si faceva anche pagare a caro prezzo l'alloggio (spesso una sistemazione di fortuna in vagoni merci o in baracche), il cibo, i vestiti e gli utensili. Non di rado, il padrone, divenuto depositario dei risparmi dei lavoratori, e perciò soprannominato banchista, scappava con il denaro accumulato. Così configurato, il cosiddetto «sistema padronale» serviva a pieno gli interessi dei datori di lavoro americani. Costituiva per loro un modo assai redditizio per assumere e impiegare centinaia di migliaia di lavoratori italiani, che si rivelarono preziosi nel condurre a compimento la grande stagione dei lavori edilizi [9] .
3. I nuovi mestieri.
Dopo pochi anni di occupazione in lavori saltuari del genere di quelli descritti, molti emigrati ritornavano in Italia; altri però provarono ad assicurarsi un'attività più stabile; la scarsità di forza lavoro durante la prima guerra mondiale accelerò l'integrazione degli italiani nel proletariato, industriale. Negli stabilimenti tessili a Patterson nel New-Jersey e a Lawrence nel Massachusetts, nei laboratori di abbigliamento a New York, Chicago e Philadelphia, negli stabilimenti metalmeccanici del New England, nei laboratori di lavorazione dei sigari di Tampa in Florida, gli italiani divennero una parte consistente della forza lavoro. Verso il 1912, un terzo dei 35 000 stivatori del porto di New York era composto da italiani e, intorno al 1910, essi costituivano tra il 10 e il 20% dei minatori nelle miniere di carbone del West Virginia, del Southwest e del Midwest. Eccetto in Pennsylvania, dove gli slavi erano in maggioranza, gli italiani costituivano il gruppo più consistente tra gli immigrati impiegati nelle miniere di carbone: avevano iniziato come lavoratori inesperti; gradualmente assursero al rango di minatori qualificati. Gli italiani del Sud costituivano una presenza significativa nel campo dell'estrazione del carbone, mentre gli italiani del Centro e del Nord rappresentavano la maggioranza nelle miniere, di ferro e rame del Lago Superiore e delle Montagne Rocciose. Una minoranza di immigrati specializzati, superando i pregiudizi dei datori di lavoro e l'opposizione dei sindacati, riuscivano anche a praticare il loro mestiere originario: sarti, barbieri, calzolai, tagliapietre, scalpellini, mosaicisti e stuccatori: in determinate occupazioni, come i cavatori di granito di Barre nel Vermont, essi costituivano addirittura l'elite della forza lavoro [10] . A differenza dei contadini irlandesi, quelli italiani, una volta stabilitisi definitivamente, mostrarono grande iniziativa imprenditoriale. La loro ambizione era di essere lavoratori autonomi, cioè di diventare i capi di se stessi e di mettere su un «bizness». I negozi di barbiere e di sartoria, i laboratori di scultura e di terracotta e le imprese di costruzioni proliferavano, estendendo la loro clientela oltre i confini di «Little Italy». Gli italiani immigrati disdegnavano il cibo «americano»: chiedevano pasta, olio d'oliva, pane «vero», pesce e verdura. Man mano che il loro numero aumentava, crebbe anche il numero di importatori e produttori locali di prodotti alimentari italiani che cercavano di rispondere alla crescente domanda. Molti tentarono, e non senza successo, di mettere su una «grosseria», un banco di frutta e verdura, una rivendita di carne o di pesce, un panificio. Ristoranti italiani, bar e pizzerie, che inizialmente servivano solo italiani, acquisirono gradualmente una clientela cosmopolita. Gli immigrati, specialmente quelli che erano arrivati dalla Liguria e dalla Sicilia, raggiunsero ben presto una posizione dominante nella vendita di frutta all'ingrosso e al dettaglio, mentre i pescatori, spesso provenienti dalle stesse regioni, salpavano con le loro navi dai moli di Boston, San Francisco e di altri porti. Altri italiani, come Andrea Sbarbaro e Rosario Di Giorgio, misero a frutto la loro esperienza nel campo della viticoltura e orticoltura per mettere in piedi un fiorente commercio di vino, frutta e verdura. L'approvvigionamento di cibo e bevande costituì certamente la strada del benessere per molti italo-americani; ma altrettanto certamente, un effetto duraturo dell'immigrazione italiana è stato quello di educare il palato degli americani [11] . Il successo negli affari, comunque, non era sempre il risultato di duro lavoro e di acume commerciale. Il lato nascosto dell'economia delle Little Italies era anche abbondantemente costituito dalla gestione dei racket, dal controllo monopolistico di certi beni di consumo (significativo l'esempio dei cosiddetti «re del carciofo»), dalle continue e violente rese dei conti con clienti e lavoratori, e persino dall'eliminazione fisica dei concorrenti. L'attività criminale divenne essa stessa un'importante forma d'impresa. Insieme ai contadini e agli artigiani, arrivavano dall'Italia anche personaggi provenienti dai margini della borghesia: preti falliti, bancarottieri, truffatori e ladri. Né capaci né desiderosi di prestare la propria opera come «scavafosse», costoro vivevano degli espedienti dettati dal proprio ingegno. Nei casi migliori diventarono giornalisti, insegnanti, impiegati, notai, e persino pastori protestanti. Nei casi meno virtuosi divennero invece «padroni», estorsori e criminali. La mano nera e la mafia furono opera loro. Alcuni sfruttavano lavoratori indifesi; altri sceglievano come proprie vittime la nascente classe degli uomini d'affari e dei professionisti. Una lettera con l'intestazione della mano nera terrorizzava, giustamente, il destinatario. Coloro che si rifiutavano di pagare erano spesso vittime di attentati, sparatorie e sequestri. Gli stessi italiani benestanti tendevano a ostentare un tenore di vita modesto, nel tentativo di sfuggire all'attenzione degli affiliati della mano nera [12] . A differenza dei contadini nordeuropei, pochi italiani sognavano di diventare «agricoltori americani». Nonostante gli sforzi del governo italiano e dei riformatori americani, i tentativi di creare colonie agricole italiane nel Sud e nell'Ovest, tranne rare eccezioni, finirono per fallire. Alcuni immigrati divennero ortofrutticoltori o presero in gestione caseifici alla periferia delle città, ma i coltivatori di grano o gli allevatori italiani erano rari. Il futuro degli immigrati italiani si trovava nelle grandi città e nei piccoli centri industriali. Complice la mentalità americana dell'agricoltore piccolo proprietario terriero, lo stereotipo degli italiani abitatori di catapecchie divenne un'ulteriore fonte di pregiudizio contro di loro. In realtà, molti lavoratori vivevano in villette decorose, mentre i benestanti risiedevano in ricche case [13] . Dagli anni ottanta dell'Ottocento in poi, le Little Italies cominciarono a sorgere come funghi in tutta l'America. Questo raggrupparsi degli immigrati in determinati luoghi era dovuto a due ragioni fondamentali: la prima era la disponibilità di posti di lavoro; la seconda era che i paesani giungevano dal villaggio alle loro destinazioni seguendo i fili di una struttura a ragnatela intessuta da coloro che erano immigrati in precedenza. Le reti di affinità e la concentrazione abitativa fornivano le infrastrutture per la migrazione e l'insediamento. La cosiddetta «Little Italy» risultava essere un mosaico di raggruppamenti in base ai villaggi e alle regioni di origine. In una città, potevano esistere una dozzina o più di questi quartieri, ognuno con un'identità distinta. [14] Le vie di comunicazione influenzarono lo schema di insediamento degli immigrati italiani. Dal momento che molti sbarcavano a New York (Boston e Philadelphia erano gli altri due porti secondari di accesso), la costa nord-occidentale diventò (ed è rimasta) la regione con la più alta concentrazione oltre il 50%) della popolazione italiana. New York, la Pennsylvama, il New Jersey e gli Stati del New England assorbirono questi nuovi arrivati tanto nelle città industriali quanto in più vasti centri urbani. A New York, che contava circa 800 000 residenti italiani nel 1920, questi si stabilirono, inizialmente, in diversi quartieri di Manhattan; con il migliorare della loro condizione economica molti si trasferirono a Brooklyn, a Richmond e nel Queens. Philadelphia e Boston, insieme a Chicago, potevano competere per il secondo posto tra le città con la popolazione italiana più numerosa. Snodo ferroviario principale del Midwest, Chicago, divenne un importante mercato del lavoro per gli italiani. New Orleans, che aveva collegamenti diretti con navi a vapore con Palermo, attraeva un gran numero di siciliani, molti dei quali assunti a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero della Louisiana. Una corrente di migrazione lungo il Mississippi creò enclaves siciliane a St. Louis, a Omaha, a Chicago, e anche a Madison nel Wisconsin. Sulla costa del Pacifico, San Francisco riveste un ruolo unico a causa della sua precoce e significativa immigrazione italiana, prima attratta dalla «corsa all'oro» e poi sostenuta dagli incentivi dello Stato della California in favore dell'agricoltura. Emigranti provenienti da ogni regione d'Italia presero parte allo sfruttamento delle risorse dello Stato [15] . Molti altri si stabilirono in piccole città e paesi in tutto il Nord-est e il Midwest, spesso situati lungo le linee ferroviarie, e le cui origini risalivano ai trasferimenti di squadre di lavoro nel profondo del cuore dell'America. Dilworth, sul confine fra Minnesota e North Dakota fu una di queste comunità. Altre sacche di insediamento italiano furono il risultato dell'impiego nell'industria mineraria: Old Forge in Pennsylvania, Hurley nel Wisconsin, Cle Elum nello Stato di Washington, Boise nel Montana e Pueblo nel Colorado, solo per nominarne alcune. Ma una mappa della popolazione italiana negli Stati Uniti nel 1920, così come nel 2000, rivelerebbe inaspettatamente l'assenza di fatto degli italiani da vaste regioni degli Usa. Con l'eccezione della Florida e della Louisiana, gli italiani sono quasi del tutto assenti nel Sud, e, a parte il Nevada, il Colorado e la California, sono pochissimo rappresentati in tutto l'Ovest [16] .
4. La vita delle comunità italo-americane.
Considerata la varietà dell'immigrazione degli italiani, delle loro occupazioni e ubicazioni all'interno degli Stati Uniti, bisogna essere cauti nel fare generalizzazioni a proposito dell'«esperienza italo-americana». Ciononostante, per fornire una visione storica d'insieme dell'immigrazione italiana, è necessario azzardare alcune considerazioni generali. Quali erano le istituzioni caratteristiche delle Little Italies? Nell'affrontare un paese per loro sconosciuto, le famiglie e la parentela allargata divennero ancora più importanti di quanto lo fossero state nel paese d'origine. A chi rivolgersi nel momento del bisogno se non al compare o alla comare? Ogni momento critico della vita veniva affrontato con il supporto e la partecipazione di parenti e paesani. I funerali, i battesimi, i matrimoni, l'acquisto di una casa erano motivo di lutto o di festeggiamento da parte dell'intera comunità [17] . Oltre la solidarietà familiare, lo spirito di campanilismo era una forza di coesione che portava i paesani a raggrupparsi in quartieri attraverso tutta l'America. Le loro espressioni istituzionali, le società di mutuo soccorso, di solito permettevano l'associazione esclusivamente ai paesani e il loro nome derivava dal santo patrono del villaggio. Oltre a elargire aiuti finanziari in caso di malattia o di morte, le società sponsorizzavano balli e feste; in queste riunioni il cibo, la musica e i racconti, con la loro familiarità, mitigavano la nostalgia di casa degli immigrati. Col crescere del numero di immigrati, queste società proliferarono a centinaia [18] . Benché legati alla Chiesa cattolica, gli italiani, rispetto agli irlandesi e ai polacchi, furono più lenti nell'organizzare congregazioni, nell'erigere chiese e nel fondare scuole parrocchiali. La religione popolare dei contadini era una mescolanza sincretica di antiche credenze pagane, pratiche magiche e dottrine e liturgie cristiane. I contadini si percepivano come cristiani, ma avevano poca simpatia e reverenza per la Chiesa istituzionale e per il clero. Benché i preti giocassero un ruolo fondamentale nei riti di passaggio, come il battesimo, il matrimonio, e la sepoltura, gli immigrati, specialmente gli uomini, erano negligenti nel partecipare alla Messa e nell'osservare i sacramenti; in particolar modo erano poco inclini a versare parte dei loro sudati salari alla Chiesa [19] . Il culto dei santi patroni era probabilmente il più forte vincolo emotivo, al di fuori della, famiglia, che legasse gli immigrati gli uni agli altri e al paese lontano. All'interno di ogni «Little Italy» di una qualche consistenza avevano luogo, durante i mesi estivi, una serie di feste in onore di san Rocco, santa Lucia, san Michele, san Gennaro, della Madonna del Carmine ecc. Importando le statue dell'Italia, i paesani cercavano con ogni sforzo di ricreare la festa per come l'avevano conosciuta nella loro città natale. Vestiti con abiti «americani», adornati di fasce, i membri della società organizzatrice prendevano parte alla Messa come un unico individuo. In seguito, la processione sfilava lungo le strade della Little Italy di turno; e le vie erano addobbate con altari da marciapiede, addobbi luminosi, bancarelle per la vendita di cibo e di altri oggetti sacri e profani. La statua del patrono era accompagnata dalla congregazione, seguita dagli stendardi, da una banda musicale e da folle di devoti, alcuni dei quali procedevano a piedi scalzi, o portavano grandi ceri. Mentre la statua si faceva largo lungo le strade, i devoti attaccavano soldi ai suoi vestiti, coprendola di fatto di banconote. Per chi vedeva la scena dal di fuori, tali atti di devozione,apparivano ridicoli o sinistri, ma la religione popolare dei contadini li sosteneva nelle difficoltà o nelle avversità [20] ". A causa delle loro pratiche e credenze religiose, gli immigrati italiani erano soggetti ad un fiume di ingiurie e di lazzi. Molti protestanti americani li vedevano come un popolo dominato dai preti che rinnegava la vera Parola di Dio e, dunque, necessario di conversione. Varie sette religiose spesero grandi somme di denaro per ministri, scuole domenicali e missioni nel tentativo di fare proseliti presso gli italiani, ma nonostante diversi decenni di sforzi continui, la crociata dei protestanti per evangelizzare gli italiani in larga misura fallì [21] . La goffaggine dei cattolici americani nei confronti dei contadini spesso eguagliava, se non superava, quella dei protestanti. Sotto l'influenza di una gerarchia dominata dalla componente irlandese-americana, la Chiesa definiva il cattolico ideale come rispettoso e obbediente, fedele nella partecipazione alla Messa e generoso per quanto riguarda le donazioni. Giudicati alla luce di questi criteri, gli italiani non apparivano affatto come dei buoni cattolici. Piuttosto, come ebbero a dichiarare alcuni preti irlandesi, la loro religiosità era tutta emotività e ostentazione. Nonostante ciò la minaccia del proselitismo protestante costringeva la Chiesa a moderare la propria opposizione alla particolare forma di religiosità posta in essere dagli italiani [22] . Alcuni leader cattolici erano convinti che per contrastare il passaggio degli emigranti ad altre appartenenze religiose fossero essenziali parrocchie nazionali italiane e preti italiani che comprendessero e rispettassero la sensibilità religiosa dei nuovi arrivati. Uno scarso numero di sacerdoti aveva accompagnato gli italiani in America, e non pochi di loro si erano macchiati di flagranti atti immorali. Per riempire questo vuoto, ordini religiosi, come gli Scalabriniani, inviarono missionari negli Stati Uniti. Anche ordini italiani di suore giunsero per portare aiuto agli immigrati. Fra loro, Frances Xavier Francesca Cabrini, fondatrice delle Missionarie del Sacro Cuore, istituì con enorme successo ospedali, scuole e istituti a favore degli italiani. Superando considerevoli difficoltà, i missionari e le missionarie aprirono un cospicuo numero di parrocchie nazionali italiane, di scuole e di altre istituzioni [23] . Ma, tra i pastori settentrionali e le loro greggi meridionali, i rapporti rimasero difficili. La stabilizzazione religiosa degli italiani fu ulteriormente complicata dall'anticlericalismo diffuso fra gli immigranti. Al di là della tradizionale mancanza di fiducia nella Chiesa, molti contadini e lavoratori, sotto la crescente influenza dei movimenti socialisti italiani, divennero liberi pensatori. Inoltre, dal momento che il potere temporale dei papi era stato un grosso ostacolo per l'unificazione del paese, anche i nazionalisti italiani tendevano ad essere fortemente anticlericali. Per mezzo di pubblicazioni, di spettacoli teatrali e di organizzazioni quali la Società Libero Pensiero, gli anticlericali sfidavano l'influenza del cattolicesimo romano sugli immigrati. «L'Asino» di Roma, il cui punto di forza risiedeva in scurrili attacchi contro i preti, aveva un'ampia diffusione presso gli italiani negli Stati Uniti; spettacoli teatrali come Giordano Bruno erano messi in scena da gruppi filodrammatici; ai raduni del primo maggio, le credenze religiose venivano ridicolizzate mediante una simulazione caricaturale dei «miracoli». Rigettando le cerimonie religiose, i radical preferivano le unioni libere o i matrimoni civili e «battezzavano» i propri figli con nomi come Ateo e Libera. In certe comunità l'ostilità era così forte che i preti italiani venivano fisicamente scacciati dalla città [24] . Nonostante l'alto tasso di analfabetismo riscontrabile presso gli immigrati, la stampa in lingua italiana divenne un'istituzione sempre più importante nelle Little Italies. Le conoscenze tradizionali, sufficienti nel paese d'origine, si rivelavano inadeguate in America: la capacità di leggere i nomi delle strade, gli orari dei treni, gli avvisi di sicurezza e le inserzioni di lavoro divenne essenziale alla vita quotidiana. Come fonti di informazione, giornali, riviste e libri assunsero allora un'importanza che non avevano mai avuto in Italia. Immigrati che non avevano mai visto un libro in America divennero lettori. Durante la fase dell'immigrazione di massa, venivano pubblicati negli Stati Uniti più di un migliaio di periodici in lingua italiana. La maggior parte era costituita da settimanali e da mensili, ma fra il 1900 e il 1930, nelle città dove erano presenti folte comunità italiane, apparvero anche una trentina di quotidiani. La tiratura di questi giornali andava dalle poche centinaia alle molte migliaia di copie. Nel 1919, 190 pubblicazioni avevano una tiratura totale di 800 000 copie. Nonostante la stampa italiana contasse un numero di titoli maggiore di quella di gruppi comparabili, le singole tirature tendevano ad essere complessivamente più basse, dato che riflettevano la faziosità politica, l'individualismo e il regionalismo degli immigrati italiani" [25] . Il primo giornale di rilievo, «L'Eco d'Italia», fu fondato a New York nel 1894 da G. P. Secchi di Casali, un esule mazziniano. Fra il 1860 e il 1880, una ventina di giornali d'ispirazione nazionalista apparvero a Chicago, San Francisco e in altre città. I patrioti esuli replicavano agli attacchi anti-italiani che comparivano sulla stampa americana e promuovevano l'osservanza del Columbus Day. Dagli anni ottanta dell'Ottocento in poi, ovunque sorgesse una «Little Italy» di una qualsiasi dimensione, erano destinati a comparire uno o più giornali in lingua italiana; potendo contare su una diffusione limitata, gli annunci pubblicitari di compagnie marittime, di banche e di agenzie di collocamento, o il patronato del governo italiano si rendevano essenziali per la loro sopravvivenza. I giornali di maggior successo venivano sponsorizzati da notabili che avevano il duplice scopo di promuovere i loro interessi affaristici e soddisfare la loro vanità. «Il Progresso Italo-Americano» di Carlo Barsotti è un esempio paradigmatico di questo tipo di pubblicazioni. Fondato a New York nel 1880, divenne il principale quotidiano italiano, e prosegui le sue pubblicazioni fino al 1982. «Il Progresso» che, al suo acme, raggiunse una tiratura di 175 000 copie, lanciò una serie di campagne in favore di manifestazioni nazionaliste, promosse l'erezione di statue di Colombo, Garibaldi, Verdi, Verrazzano e Dante, e appoggiò la rivendicazione di Antonio Meucci di essere il vero inventore del telefono [26] . Con lo sviluppo di pubblicazioni a diffusione di massa, vennero assunti dall'Italia e chiamati a lavorare in America giornalisti professionisti come Agostino De Biasi e Luigi Barzini. Intrisi di sentimento nazionalistico, essi cercarono di alzare il livello culturale degli immigrati e di instillare in loro il patriottismo. Promossero la celebrazione anche in America di feste nazionali italiane, come la festa dello Statuto e il venti settembre. Allo stesso tempo, cercando di conciliare la doppia fedeltà degli immigrati, promossero le celebrazioni del Columbus Day. Dal momento che i voti erano una fonte di potere, gli organi di informazione dei notabili esortavano gli italiani a imparare l'inglese, a diventare cittadini americani e a partecipare alla politica americana. I redattori dei giornali italiani, da un lato, protestavano vigorosamente per il trattamento ingiurioso riservato ai propri connazionali, come nel caso dei linciaggi di New Orleans; dall'altro rimproveravano aspramente agli immigrati alcune pratiche come l'uso del coltello, la raccolta di stracci, l'accattonaggio e l'allattamento in pubblico dei bambini. Nonostante essi criticassero l'eccessiva importanza riservata alle notizie sulla criminalità italiana da parte della stampa americana, le loro pubblicazioni comprendevano anch'esse una vasta sezione di cronaca nera, dedicata a fatti di sangue e di depravazione. A dispetto della retorica nazionalistica, essi si vendevano al miglior offerente tra i candidati a cariche pubbliche, pubblicavano annunci pubblicitari ingannevoli, si opponevano alle riforme civili e mancavano di informare accuratamente sulla situazione sindacale [27] . A differenza degli immigrati slavi, i cui giornali più importanti erano spesso pubblicati sotto gli auspici del clero, le pubblicazioni di carattere religioso non costituivano una componente rilevante della stampa italiana. Allorquando alcune sette evangeliche protestanti fondarono periodici come «La Fiaccola», la Chiesa cattolica rispose con giornali quali «Il Corriere della Domenica», ma tutte queste pubblicazioni avevano una modesta tiratura. Benché minori di numero e con tiratura più ristretta di quella dei giornali finanziati dai notabili, le pubblicazioni socialiste e anarchiche raggiungevano un segmento significativo della popolazione immigrata. Da un rapporto del 1920 del Dipartimento di Giustizia emerge che, sui 222 giornali radical non di lingua inglese considerati, 27 erano scritti in italiano (secondi solo ai 35 fogli complessivamente pubblicati in ebraico e in yiddish); e tutto ciò in un periodo che risentiva fortemente della repressione post-bellica. Nonostante siano stati identificati complessivamente i titoli di 190 periodici radical, va ricordato che molte di questi ebbero vita breve, spesso di pochi numeri; e che spesso, per ragioni politiche, lo stesso giornale era costretto ad apparire sotto testate differenti. La pubblicazione più diffusa in questo ambito, «Il Proletario», raggiunse un massimo di 7800 copie nel 1916. Anche durante i periodi più favorevoli, le condizioni di pubblicazione di questa stampa «sovversiva» rimasero comunque precarie: dal momento che non avevano inserzioni pubblicitarie, la maggior parte di questi giornali puntavano a sopravvivere numero dopo numero, coprendo i continui ammanchi di cassa attraverso sottoscrizioni e raccolte di fondi [28] .
5. Il sovversivismo politico.
Emigrazione e sovversivismo erano, per i lavoratori e i contadini italiani giunti in America, due maniere interconnesse di reagire alle condizioni oppressive dell'Italia della fine del secolo XIX. Le idee socialiste e anarchiche disseminate da una intellighenzia lontana trovavano terreno fertile presso di loro. Leghe contadine e Camere del lavoro erano apparse in tutto il Regno, mentre si diffondevano gli scioperi e le rivolte del pane: una dura repressione aveva fatto seguito a questo movimento. Leader e semplici attivisti erano stati imprigionati; altri erano fuggiti all'estero, portando con sé le loro ideologie: dal socialismo all'anarchismo fino al sindacalismo rivoluzionario. Negli anni ottanta dell'Ottocento fu fondato a New York il Gruppo socialista anarchico rivoluzionario «Carlo Cafiero» che, mediante la sua pubblicazione, «L'Anarchico», chiamava alla rivoluzione sociale, all'emancipazione delle donne e alla liberazione dei lavoratori dal controllo clericale. Nel decennio successivo, figure di spicco dell'anarchismo, come Francesco Saverio Merlino, Pietro Gori ed Errico Malatesta, giunsero negli Usa, dove fondarono pubblicazioni quali «Il Grido degli Oppressi» e «La Questione Sociale», e contribuirono alla nascita di circoli anarchici da New York a San Francisco. I setifici di Patterson nel New Jersey attraevano un gran numero di lavoratori tessili italiani, molti dei quali erano anarchici. Uno di loro, Gaetano Bresci, ritornò in Italia per assassinare Umberto I nel 1900 [29] . All'alba del secolo, gli immigrati radical erano qualche migliaio; ai tempi della prima guerra mondiale, il loro numero era cresciuto a decine di migliaia. Molti erano veterani delle lotte di classe in Italia; altri, come Bartolomeo Vanzetti, conobbero un processo di radicalizzazione delle loro idee politiche in conseguenza delle dure condizioni in cui vennero a trovarsi in America. Gruppi socialisti sorgevano a New York, Pittsburgh e Chicago, nelle piccole città industriali, nelle aree minerarie in tutto il paese. Giacinto Menotti Serrati, futuro leader del Partito socialista italiano, e, in seguito, del Partito comunista italiano, fu per alcuni anni il direttore de «Il Proletario», nonché il fondatore della Federazione socialista italiana (Fsi). Rispecchiando gli eventi italiani, la Fsi si divise fra socialdemocratici, affiliati all'American Socialist Party (Asp) e sindacalisti rivoluzionari, alleati con gli Industriai Workers of the World (Iww). Sulla stampa, questi gruppi portavano avanti violente polemiche tra loro e con gli anarchici e i loro contatti davano spesso luogo a scontri violenti. Le dottrine radical determinavano negli adepti una vera e propria fede militante, con visioni del mondo e modi di vita specifici. Dove gli anarchici o i socialisti erano dominanti, le loro idee permeavano ogni sfera della vita quotidiana: a Barre nel Vermont, per esempio dal, momento che i tagliapietre piemontesi, lombardi e toscani, erano «quasi tutti [...] violentemente anti-clericali non sorgeva alcuna chiesa cattolica italiana.. Il luogo di ritrovo dei socialisti era il centro della loro comunità con uno spaccio cooperativo, una panetteria e luoghi di ritrovo dove si tenevano conferenze, feste da ballo e banchetti. A Tampa, un lettore leggeva ad alta voce giornali e libri radical agli operai che producevano sigari nei laboratori. Qui i siciliani si univano ai cubani e agli spagnoli nel dare vita a una cultura radical panlatina. Con i propri soldi, essi costruirono un imponente centro per italiani con una clinica medica, un ristorante, una biblioteca, un teatro e sale di ritrovo [30] . Per liberare i lavoratori da miti patriottici e superstizioni religiose, il radicalismo politico cercava di educarli e di instillare in loro la coscienza di classe. Oltre ai giornali, le stamperie socialiste e anarchiche pubblicavano centinaia di libri e pamphlet, inclusi gli scritti di Darwin, i romanzi di Émile Zola e le opere di Bakunin, Kropotkin e Marx. Le sale di riunione erano piene di pubblicazioni radical provenienti dall'Italia e da altre nazioni e un «Almanacco Sovversivo» commemorava i martiri e gli eventi della storia rivoluzionaria. Il primo maggio sfilavano attraverso le città americane brandendo bandiere rosse o nere con le bande musicali che suonavano inni rivoluzionari. Anarchici e socialisti italiani combattevano inoltre il sistema del notabilato che controllava gran parte della vita sociale e politica delle enclaves italiane. Mentre l'élite cercava di inculcare il nazionalismo negli immigrati, i sovversivi interrompevano le celebrazioni patriottiche, ridicolizzavano le processioni religiose e spingevano i lavoratori a non patrocinare le chiese e a non mandare i propri figli nelle scuole parrocchiali. I notabili replicavano con cause per diffamazione, anatemi dal pulpito e violenza fisica. Nei primi decenni del XX secolo, molte Little Italies erano tormentate da lotte di classe interne [31] . Il ruolo più importante svolto dagli immigrati radical, comunque, era quello di organizzatori e leader dei lavoratori italiani nelle battaglie sindacali condotte nei decenni a cavallo della prima guerra mondiale. Oratori efficaci come Carlo Tresca e Luigi Galleani trasformarono immigrati impauriti e disorganizzati in militanti che non esitavano ad utilizzare l'arma dello sciopero. Nelle fabbriche di Lawrence nel Massachusetts e di Patterson nel New Jersey, nelle miniere metallifere del Minnesota, a Pueblo nel Colorado e nei laboratori di sartoria che sfruttavano i lavoratori dì New York e Chicago, i militanti anarchici e socialisti mobilitavano gli italiani in epici conflitti con il capitalismo americano, che ebbero come esito anche quello di inserire gli italiani nei ranghi delle associazioni sindacali come International Ladies Garment Workers' Union, l'Amalgamated Clothing Workers of America, la United Mine Workers of America [32] . Nonostante la militanza appassionata dimostrata nel corso di queste lotte sindacali, gli italiani venivano giudicati in modo ambivalente dai sindacalisti americani; da un lato, essi erano descritti come «schiavi dei padroni» e crumiri; dall'altro, erano rappresentati come eccessivamente radical e insofferenti nei confronti dell'organizzazione. Esclusi dai sindacati dell'Afl in base a pregiudizi razziali, essi fondarono dei loro sindacati quali la Società degli stuccatori e decoratori italiani di Chicago e la Società dei sarti italiani a Philadelphia. A fronte di questo doppio sistema di rappresentanza sindacale, le organizzazioni dell'Afl cominciarono ad accogliere carpentieri, muratori, scalpellini, barbieri, tagliapietre e sarti italiani. Anche quando venivano accettati in un sindacato, gli italiani si trovavano tuttavia in una posizione subordinata, incapaci di partecipare, dal momento che gli incontri si tenevano in inglese (o in yiddish), ed erano raramente eletti nelle cariche. Irrequieti sotto la leadership conservatrice e spesso corrotta della Afl, gli italiani tendevano ad essere attratti dal sindacalismo rivoluzionario degli Industriai Workers of the World [33] Trascurati dai sindacati americani, i braccianti erano a volte organizzati da membri marginali della borghesia, i quali vedevano quest'attività come una strada che portava al benessere e al successo. Giuseppe D'Andrea, un prete spretato, divenne il primo grande boss italiano del lavoro, organizzando i lavoratori nelle appena formate International Hod Carriers' Union e Building Laborers' Union. A Boston, Dominick D'Alessandro, un banchiere fallito, prese il controllo della Hod Carriers' Union della Afl e la presiedette fino alla propria morte nel 1926. Paul Vacarelli, un gestore di bar ed ex pugile professionista, divenne il capo della International Longshoreman's Association (Ila) ed esercitò una forte influenza sul Partito democratico di New York. Negli anni venti del Novecento, la Ila, la maggior parte dei cui membri era adesso italiana, era sotto il controllo completo di Vaccarelli e dei gangster italiani [34] .
6. La guerra, il fascismo, la crisi del '29.
La prima guerra mondiale segna un punto di svolta nella storia degli italiani negli Stati Uniti. L'entrata in guerra dell'Italia, nell'aprile del 1915, portò all'insorgere di uno slancio di nazionalismo etnico fra gli immigrati. Ispirati dalla propaganda italiana, amplificata dai notabili delle comunità e intensificata dai conflitti etnici, i precedentemente apatici italiani divennero sostenitori entusiasti della patria. Benché solo un numero esiguo di riservisti ritornasse per combattere, gli immigrati facevano donazioni alla Croce Rossa italiana, compravano obbligazioni italiane e partecipavano a cortei patriottici, banchetti e comizi. Nel frattempo, anche il governo statunitense portava avanti un'intensa campagna di propaganda presso gli immigrati per sfruttare il loro appoggio alla guerra. Prevalse un'atmosfera di «americanismo al cento per cento» nella quale espressioni di appartenenza etnica, come l'uso della lingua natale, venivano scoraggiate. Comunque, il fatto che l'Italia fosse un alleato permetteva agli immigrati di essere patrioti americani e italiani al tempo stesso. Un gran numero di italiani di prima e seconda generazione si arruolarono nelle forze armate statunitensi, il che dava ad essi automaticamente diritto alla cittadinanza americana. Un risultato paradossale di questa situazione era che molti tornavano dalla guerra sentendosi al tempo stesso maggiormente americani e maggiormente italiani. Da questo punto in poi, è più giusto riferirsi ad essi come italo-americani [35] . La guerra ebbe un impatto decisivo sui gruppi del radicalismo politico italo-americano, il quale raggiunse il proprio punto massimo e poi sprofondò al minimo, per non risalire più. Il tema dell'intervento in guerra dell'Italia divideva gli ambienti del radicalismo politico degli emigranti: mentre molti rimanevano contrari alla guerra, altri come Edmondo Rossoni, che era direttore de «Il Proletario», scelsero il patriottismo invece della solidarietà internazionale di classe. Ritornato in Italia, egli finì per entrare nella Confederazione nazionale dei sindacati fascisti. Il percorso di Rossoni dal sindacalismo al fascismo fu seguito da altri radical e preludeva alle aspre battaglie che sarebbero state combattute in seguito nelle Little Italies [36] . Il «Terrore Rosso» diffusosi negli Stati Uniti a seguito della Rivoluzione bolscevica del novembre 1917 ebbe ripercussioni anche sui militanti italiani. Il governo statunitense intensificò la sorveglianza e la persecuzione degli attivisti, delle organizzazioni e delle pubblicazioni sovversive. I leader dell'Iww furono condannati alla prigione o deportati; altri vennero picchiati, e alcuni persino linciati da vigilantes. Gli italiani sovversivi furono fra le vittime di queste persecuzioni. La deportazione di Luigi. Galleani, direttore di «Cronaca sovversiva», diede luogo ad atti terroristici che culminarono con l'attentato dinamitardo di Wall Street il 16 settembre1920. Due dei seguaci di Galleani, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, furono catturati durante una delle retate della polizia che fecero seguito a questo episodio: condannati nel 1920 per un omicidio avvenuto a South Braintree nel Massachusetts, vennero giustiziati il 23 agosto del 1927. Il loro divenne un caso internazionale. Sebbene siano stati recentemente riabilitati la questione della loro colpevolezza o innocenza è ancora oggi dibattuta [37] . Nonostante la soppressione dei loro giornali e delle loro organizzazioni, i lavoratori italiani di orientamento politico radical ripresero le attività sindacali e propagandistiche negli anni successivi alla guerra, partecipando vigorosamente agli scioperi del 1919 delle industrie metallurgiche, carbonifere, tessili e dell'abbigliamento. Sempre nel 1919, una Camera del lavoro italiana fu creata a New York con lo scopo di organizzare i lavoratori italiani di quella città. La depressione postbellica, le politiche anti-operaie del governo e i contrasti interni ridimensionarono presto queste aspirazioni: nel giro di pochi anni, il radicalismo politico italiano negli Stati Uniti non fu che l'ombra di se stesso, e i suoi vertici furono decimati dal ritorno in Italia di alcuni e dalla defezione in favore del fascismo di altri. Ciò che restava dei sovversivi italiani si unì in gran parte all'appena formata Federazione italiana del Workers (Communist) Party of America. Gli anarchici e i socialisti italiani, comunque, divennero ben presto duri oppositori dei comunisti, allontanati dalle notizie delle uccisioni dei loro compagni da parte dei bolscevichi in Unione Sovietica e dalla tattica comunista di «aprirsi un varco dall'interno» al fine di prendere il controllo delle organizzazioni sindacali negli Stati Uniti [38] . I gruppi della sinistra radical tra gli italiani, comunque, erano destinati a confrontarsi con una minaccia ancora più grave: la crescente influenza del fascismo all'interno delle Little Italies. Un rafforzato nazionalismo italiano, stimolato dalla guerra, fu ulteriormente infiammato dalla questione di Fiume. Il presidente Woodrow Wilson, un tempo acclamato come un salvatore, veniva ora accusato di tradire l'Italia ostacolandone le rivendicazioni irredentiste. Gli elettori italiani adirati sfogarono la propria rabbia votando per i repubblicani alle elezioni del 1920. Inoltre, con l'ascesa del Ku Klux Klan, il proibizionismo e misure volte alla restrizione dell'immigrazione, si venne a manifestare nell'opinione pubblica americana un minaccioso e crescente «nativismo», ostile per principio alle comunità di immigrazione. Spesso vittime di questa xenofobia, gli immigrati italiani cominciarono a guardare con fiducia alla promessa di Mussolini di una Italia moderna e influente. I propagandisti fascisti trovarono pronti alleati nei notabili, mentre l'ordine Sons of Italy, legandosi al nuovo regime italiano, avanzava a passi da gigante. La stampa locale, salvo alcune eccezioni, fungeva da portavoce di Roma. Generoso Pope, proprietario de «Il Progresso Italo-Americano» e potente personalità del Partito democratico, fece del proprio giornale un organo di informazione fascista. A seguito dei Patti Lateranensi, che ristabilirono relazioni fra il Vaticano e lo Stato italiano, i parroci italiani, dai pulpiti e mediante le scuole parrocchiali, fungevano da canali di propaganda fascista. Solo una minoranza di italo-americani indossava effettivamente la camicia nera dei fasci, ma nelle occasioni di raduno della comunità erano esposti ritratti del duce e del re e si cantava vigorosamente Giovinezza [39] . La guerra di Etiopia rivelò la profonda adesione di molti italo-americani al regime fascista. Alcuni si arruolarono volontariamente per combattere a favore del nuovo Impero Romano, molti facevano donazioni alla Croce Rossa italiana e le donne donavano le loro fedi nuziali alla causa. Gli antifascisti italo-americani, residuo dei falliti movimenti radical, ma rinforzati da coloro che erano sfuggiti agli squadristi, combattevano i fascisti sulla stampa e per le strade delle Little Italies. Gaetano Salvemini, grande storico ed egli stesso rifugiato politico, valutava che solo un 5% degli italo-americani era composto da «fascisti completi», un altro 35% da filo-fascisti, mentre un 10% era anti-fascista. L'altro 50%, egli riteneva, era composto da individui «solo interessati ai propri affari personali» [40] . Uno degli effetti più importanti della prima guerra mondiale sulla presenza italiana in America fu l'interruzione dei traffici attraverso l'Atlantico, compresa l'immigrazione. Benché il flusso migratorio dall'Italia fosse ripreso nei primi anni venti, le nuove misure restrittive sull'immigrazione adottate degli Stati Uniti trasformarono il rubinetto in un gocciolio (la legge del 1924 stabiliva una quota annuale per l'Italia di 3845 partenze). Ma le disposizioni statunitensi sui ricongiungimenti familiari, che permettevano l'accoglienza dei coniugi, dei figli e degli altri parenti prossimi degli italiani naturalizzati fuori da questa quota, elevavano significativamente il numero effettivo di immigranti. L'emigrazione italiana fra le due guerre (in totale circa 600 000 immigrati) era composta principalmente di donne e giovani, che venivano a ricongiungersi ai mariti e ai padri dopo lunghe separazioni [41] . Gli anni venti del Novecento segnarono la fine della fase temporanea dell'immigrazione italiana. I ritorni furono scarsi durante l'intero periodo, fatta eccezione per una impennata ai tempi della depressione economica degli anni trenta. Una delle conseguenze fu la stabilizzazione dei nati in Italia negli Stati Uniti, i quali raggiunsero nel 1930 la cifra massima di 1 800 000. Un'altra conseguenza fu l'aumento del numero di bambini nati in America, dovuto alla natura stabile della vita familiare. Migrazioni di afroamericani dal Sud e di messicani dal Sud-ovest offrivano una nuova fonte di manodopera non qualificata, mentre gli sviluppi tecnologici inducevano la dipendenza dell'economia da questo tipo di lavoratori. Durante i prosperi anni venti, gli italiani approfittarono di queste tendenze andando a occupare posti di lavoro qualificati e semiqualificati. Anche i bambini, raggiunta una certa età, andavano spesso a lavorare, dal momento che molte famiglie italiane, per scelta o per necessità economiche, non facevano proseguire loro gli studi. I redditi familiari aumentarono notevolmente permettendo alle famiglie italiane di godere di condizioni di vita senza precedenti. La percentuale di proprietari di case crebbe notevolmente, così come l'acquisto di beni di consumo: la lavatrice, la radio e soprattutto l'automobile divennero le prove tangibili che la terra promessa era state finalmente raggiunta [42] . Il crollo dei mercati finanziari del 1929, seguito da una depressione decennale, infranse tuttavia il sogno italo-americano. La maggior parte delle famiglie italiane si ritrovò ricacciata negli abissi della povertà: la disoccupazione, la perdita del diritto di riscatto delle ipoteche sulle case e sulle attività, il fallimento delle banche e la perdita dei risparmi furono, d'altro canto, esperienze condivise con gli altri americani. Tuttavia le capacità contadine di sopravvivenza permisero alla maggior parte degli italiani di cavarsela meglio dei lavoratori "americani": gli orti, i polli e i conigli permettevano loro di avere sulla propria tavola carne e verdura anche in città; carbone e legna da ardere potevano sempre essere trovati; i legami di parentela e di vicinanza, inoltre, presupponevano una condivisione delle risorse, così come «l'addebitare» gli acquisti ai negozianti locali. Le famiglie italiane, inoltre, beneficiarono largamente dei programmi in favore dell'occupazione e di assistenza sociale del New Deal. Tradizionalmente gli italiani tendevano a votare repubblicano, ma ricompensarono Franklin Delano Roosevelt per essere venuto loro in aiuto nel momento del bisogno disperato spostandosi in massa verso il Partito democratico [43] .
7. La seconda generazione.
Tra gli sviluppi che ebbero influenza sul futuro degli italiani in America, nessuno fu più importante dell'emergere di una seconda generazione. Intorno al 1920, i figli nati in America superarono in numero i loro genitori immigrati; verso 1940 molti di loro avevano raggiunto la maturità. Questi italo-americani appartenevano a due mondi: il microcosmo della famiglia e del vicinato e il macrocosmo americano. Nonostante il paese dei loro genitori non fosse che una leggenda, essi bevevano la cultura del contadino insieme al latte materno; crescendo, però, assorbivano dalle scuole, dalla strada e dai mass media anche le idee e i sogni americani. Inevitabilmente si produsse un conflitto generazionale e culturale: da un lato genitori che desideravano che i loro figli seguissero la via vecchia; dall'altro figli che desideravano più di ogni altra cosa essere americani. Quella della seconda generazione fu un'esperienza di ambivalenza e marginalità, non appartenendo pienamente a nessuno dei due mondi, subendo costantenmente il tira e molla di due modi di vita antitetici. Questi giovani americanizzati, secondo la risentita percezione dei loro genitori, imparavano dai loro insegnanti e compagni che essere italiani era sinonimo di «sempliciotti», e venivano presi in giro per i loro cognomi melodiosi, per i loro panini con salsiccia e peperoni, per i loro abiti rattoppati. Scherniti dai loro compagni di classe con nomignoli dispregiativi come «dago», «wop» e «guinea» [44] , impararono a vergognarsi dei loro genitori a causa del loro inglese stentato e dei loro modi eccessivi [45] . Nel suo studio Italian or American? (1943), il sociologo Irving Child rileva, all'interno della seconda generazione, una gamma di reazioni che spaziavano da un atteggiamento di ribellione, e conseguente rigetto dell'identità italiana, alla scelta di diventare militanti proitaliani. Gli uni, che spesso miravano all'elevazione sociale, cambiavano i loro cognomi (da Falegname a Carpenter), si sposavano al di fuori della comunità italiana, andavano ad abitare fuori da Little Italy e smettevano addirittura di mangiare spaghetti. Gli altri abbracciavano l'eredità italiana, studiavano la lingua e glorificavano i successi dell'antica Roma e dell'Italia fascista. La maggior parte si trovava da qualche parte fra questi due estremi. Nonostante i sociologi sostengano che tale crisi di identità abbia avuto dei costi in termini di autostima, passività e delinquenza, abbondanti elementi di prova fanno supporre che molti italo-americani superarono questi problemi riuscendo a vivere delle vite «normali», quando non eccezionali [46] . Di fatto, c'era molta continuità tra la prima e la seconda generazione. I genitori immigrati mantenevano in gran parte il controllo sui loro figli e inculcavano in loro i valori contadini. Tuttavia, per alcuni aspetti, i genitori dipendevano dai loro discendenti anglofoni che fungevano da «intermediari» nel contatto con datori di lavoro, pubblici ufficiali e insegnanti. Vivendo in casa dei genitori fino al matrimonio, spesso sposati ad italiani, mettendo su casa nel quartiere, i membri della seconda generazione manteneva stretti contatti con la propria famiglia allargata; nello stile di vita, tuttavia, scimmiottavano gli usi e i costumi degli americani «veri» per come li imparavano dai film. Un altro segno di americanizzazione è dato dal fatto che i figli divennero cattolici «migliori» dei loro genitori immigrati. Meno radicati nella religione popolare dei contadini, essi erano maggiormente soggetti all'influenza della Chiesa. Essere americani significava, fra le altre cose, far parte di una setta religiosa; l'ateismo dei liberi pensatori era semplicemente non americano. All'avvicinarsi dell'età adulta, gli italo-americani dì seconda generazione a volte costringevano i propri genitori a cessare di essere dei «wops» nell'abbigliamento e nei comportamenti e li spingevano a diventare cittadini americani. Per lo più i figli e le figlie rimanevano essi stessi operai, benché andassero spesso ad occupare impieghi qualificati. Data l'urgenza dei bisogni economici e lo scarso valore che la maggior parte dei genitori immigrati conferiva all'educazione, questa generazione fu segnata da un basso livello di risultati scolastici e di mobilità lavorativa [47] . Gli italo-americani di seconda generazione rappresentavano una complessa commistione di tratti del Vecchio Continente, esperienze sindacali, ideali tipici e sogni hollywoodiani. Essi, comunque, non erano solo consumatori di cultura popolare ma anche produttori: si fecero un nome nella musica, nello sport, nel cinema, nella letteratura e nel crimine. La cultura americana non sarebbe la stessa senza Joe Di Maggio, Rocky Graziano, Jmmy Durante, Frank Sinatra, Frank Capra, Pietro di Donato e Al Capone [48] . Per questa generazione essere italo-americani significava anche far parte della classe lavoratrice: lavorando nelle fabbriche fianco a fianco con irlandesi, ebrei, polacchi e greci, i giovani italo-americani svilupparono un senso di inter-etnica solidarietà lavorativa e giocarono un ruolo nell'organizzazione sindacale delle industrie di produzione di massa negli anni trenta e quaranta. Nutriti dal New Deal, gli anni trenta segnarono la resurrezione del movimento sindacale americano. La maggior parte degli italo-americani, sia di prima che di seconda generazione, erano adesso impiegati nella produzione mineraria, dell'acciaio, delle automobili, dei tessuti, dell'abbigliamento e partecipavano all'organizzazione di campagne e scioperi di massa guidati dal Congress of Industriai Organizations (Cio). Vecchi sovversivi, come Emilio Grandinetti, e radical di seconda generazione, come Ernie De Maio, divennero organizzatori e rappresentanti di questi nuovi sindacati industriali. Dando maggiore potere agli immigrati e ai loro figli, sia il Partito democratico che il Cio permisero agli italiani di partecipare più pienamente alla vita politica americana [49] . Per la maggior parte esclusi da «carriere rispettabili» negli affari e nelle professioni a causa dei pregiudizi, delle loro limitate aspirazioni e della loro scarsa istruzione, non pochi italiani di seconda generazione si volsero al crimine come loro «originale scala di mobilità sociale». Le bande giovanili di uomini erano il campo di allenamento per il crimine organizzato nelle città: osservando come i propri padri erano sfruttati e degradati, essi erano determinati a non diventare «scavafosse italiani». Certi immigrati erano stati in Italia e continuavano ad essere in America criminali professionisti; per la maggior parte essi vivevano alle spalle di altri italiani, tuttavia alcuni, come «Big Jim» Colosimo di Chicago, divennero personaggi conosciuti nel campo della prostituzione, del gioco d'azzardo e di altre attività illegali. In America, data la dilagante corruzione politica e l'ipocrisia puritana che criminalizzava alcuni appetiti umani, essi trovarono un ambiente ideale per il crimine organizzato. La cultura contadina stessa conteneva alcuni valori che creavano una certa propensione all'illegalità. Uno di questi era il cinismo nei confronti di istituzioni come la giustizia e le leggi, viste come realtà astratte; un altro era la convinzione che il forte domina sempre il debole; un terzo era l'assoluta fedeltà alla famiglia (che veniva estesa attraverso affiliazioni rituali). La storia aveva insegnato ai contadini queste verità, e le loro esperienze negli Usa le confermavano. Capone stesso si dice abbia affermato: «Non sono italiano. Sono nato a Brooklyn», tuttavia il successo del crimine organizzato era dovuto ad una combinazione quasi perfetta fra l'etica degli immigrati e l'America di fronte alla quale essi si erano venuti a trovare [50] . La proibizione di produrre e vendere bevande alcoliche stabilita dal diciottesimo emendamento alla Costituzione americana costituì una fortuna inaspettata per alcuni italiani. Senza rimorsi morali riguardo al bere e ancora fermi allo stadio domestico della produzione (la maggior parte delle famiglie producevano vino per loro uso personale), essi erano preparati a saziare la sete inestinguibile degli americani. Presto le distillerie cominciarono ad operare in molte case italiane e non poche ricche famiglie italiane cominciarono la loro ascesa economica producendo liquore di contrabbando. Priva di regole, poiché illegale, la produzione e la distribuzione di alcol divenne ben presto un affare da tagliagole nel senso letterale del termine. Ne risultò una guerra fra gang per il dominio del mercato con numerose vittime. La genialità di Al Capone consistette nell'essere capace di dominare e organizzare questa nuova attività. Egli era il Rockfeller dell'alcool di contrabbando [51] . Il crimine e la politica andavano mano nella mano nell'America urbana. Prima della prima guerra mondiale, solo un numero esiguo di italiani divennero cittadini naturalizzati e aventi diritto al voto. Per quanto coinvolti nella politica americana, gli italiani fungevano da ingranaggi di macchine politiche controllate da leader politici irlandesi; essi ricevevano, tutt'al più, incarichi secondari nei municipi; col crescere del numero di elettori italiani, i leader politici italiani venivano ricompensati occasionalmente con una carica di giudice, raramente con un posto in consiglio comunale o nell'assemblea legislativa dello Stato. Ci furono rare eccezioni. Candidato della lista repubblicana, Fiorello La Guardia, americano di seconda generazione, uomo politico onesto e progressista, fu eletto prima al Congresso degli Stati Uniti e, in seguito, sindaco di New York. Il suo pupillo, Vito Marcantonio, una figura controversa, rappresentò a Washington per oltre un decennio il distretto a forte componente italiana di West Harlem. Bisognava attendere il 1950 per vedere eletto al Senato degli Stati Uniti un italo-americano, John Pastore di Rhode Island. Dopo la seconda guerra mondiale, crebbe stabilmente il numero di italo-americani che facevano parte del Congresso degli Stati Uniti o che ricoprivano le cariche di sindaci o governatori degli Stati, così come il numero di coloro che erano designati a incarichi di gabinetto. Mentre molti avevano rivestito la carica di giudice, la nomina di Antonin Scalia alla Corte Suprema degli Stati Uniti fu la prima per un italo-americano. Geraldine Ferraro, candidata vicepresidente nel 1984, ha rappresentato il punto più vicino alla Casa Bianca che un italo-americano abbia mai raggiunto. Per screditarla, venne avanzata l'accusa che suo marito avesse legami con la «criminalità organizzata». Tra le congetture che vennero avanzate sul perché Mario Cuomo non avesse cercato di ottenere la candidatura presidenziale del Partito democratico, vi è l'ipotesi che egli si sia rifiutato di sottoporsi alle insinuazioni di legami con la mafia che ne sarebbero scaturite. La presidenza degli Stati Uniti appare tuttora fuori della portata di un italo-americano [52] .
8. La seconda guerra mondiale.
La seconda guerra mondiale portò cambiamenti permanenti e fondamentali nella condizione e nelle prospettive degli italo-americani. La loro simpatia per il fascismo cessò repentinamente in seguito alla dichiarazione di guerra dell'Italia agli Stati Uniti dell' 11 dicembre 1941; guidati da Generoso Pope, i notabili proclamarono la loro completa fedeltà agli Stati Uniti e la loro obbedienza al presidente Franklin D. Roosevelt. Ex simpatizzanti del fascismo comprarono obbligazioni di guerra americane e mandarono i propri figli a combattere contro gli eserciti dell'Asse, compresi probabilmente i propri cugini. I circa 600 000 italiani non naturalizzati venivano considerati «nemici stranieri» ed erano soggetti a determinate restrizioni residenziali e occupazionali; questo marchio di infamia fu rimosso quando, nel Columbus Day del 1942, il procuratore generale degli Stati Uniti Anthony Biddle pronunciò una dichiarazione nella quale riconosceva la lealtà degli italo-americani (compresi quelli che non erano divenuti cittadini americani). Benché alcune migliaia di essi fossero stati temporaneamente internati, solo 210 stranieri italiani erano ancora rinchiusi in campi di prigionia alla fine del 1942. Negli anni novanta del Novecento, il trattamento riservato alle persone con antenati italiani durante la seconda guerra mondiale divenne il tema di una mostra, La storia segreta, che generò forte impressione e rabbia presso gli italo-americani: benché non fosse un «segreto», molti italo-americani si convinsero che questi avvenimenti fossero stati tenuti nascosti e chiedevano scuse ufficiali e risarcimenti da parte del governo degli Stati Uniti. Un voluminoso rapporto, stilato dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, per ordine del Congresso, fu seguito da un riconoscimento da parte del presidente Clinton delle ingiustizie perpetrate nei confronti di alcuni italo-americani; ma non fu concesso alcun risarcimento [53] . Benché vittime di atti isolati di violenza e ostilità, gli italo-americani non furono oggetti di pesanti campagne di denigrazione come i tedeschi-americani; né la loro esperienza era comparabile, in qualsiasi senso, con quella dei nippo-americani, 110 000 dei quali, compresi alcuni nati in America, furono rinchiusi per diversi anni in campi di concentramento. Ancor prima che il clima diventasse difficile, le organizzazioni italo-americane si smembrarono, l'insegnamento dell'italiano fu abbandonato, il suo uso nella stampa ridotto, le celebrazioni tradizionali sospese e i nomi delle attività e delle famiglie anglicizzati. Intenti a dimostrare il loro patriottismo, logge dei Sons of Italy gareggiavano nell'acquisto di obbligazioni di guerra, un gran numero di italo-americani prestava servizio nelle forze armate e le medaglie d'oro al valore militare appese alle finestre delle Little Italies attestavano il tributo di sangue pagato alla repubblica americana. La guerra accelerò in molti modi il processo di americanizzazione: il servizio militare e l'impiego nell'industria bellica spinse milioni di italiani fuori dei loro quartieri, spargendoli in ogni parte del paese e del mondo. Uscendo fuori dalle Little Italies, essi incontravano persone di gruppi etnici e razziali e di classi diverse: ne risultò un aumento delle relazioni al di fuori del proprio gruppo e dei matrimoni misti. L'emigrazione dalle Little Italies durante e in seguito alla guerra le impoverì in particolare degli elementi più giovani. La continua crescita economica e il GI Bill aprirono nuove opportunità per lavori migliori, educazione superiore e l'acquisto di case. In questo afflusso della seconda generazione nella classe media suburbana americana, i vecchi immigrati vennero lasciati indietro nei quartieri centrali in decadenza. Mancava, inoltre, un flusso significativo di nuovi arrivi che potesse nutrire le Little Italies di nuovo sangue. Nonostante gli Usa rimanessero la destinazione estera prediletta, la migrazione verso il Nord Europa costituiva la componente principale dell'emigrazione italiana nei decenni successivi alla guerra. Dopo la seconda guerra mondiale, approssimativamente, solo un milione di immigrati sono arrivati dall'Italia. Nel 1990, di una popolazione italo-americana di oltre 11 milioni, meno del 10% era nato all'estero; la maggior parte erano immigrati anziani [54] .
9. Una comunità integrata.
Il clima repressivo della guerra fredda, richiedendo una conformità politica e culturale, rafforzò l'aspirazione degli appartenenti alla seconda generazione a diventare «buoni» americani. Eccetto rare eccezioni, essi abbandonarono le idee radical e anti-clericali dei loro genitori, diventando cittadini condiscendenti e cristiani praticanti. All'osservatore poteva sembrare che i figli degli immigrati si stessero gettando a capofitto nel Melting Pot, e, di fatto, molti lo facevano felicemente, spogliandosi di qualsiasi elemento italiano, compreso l'aglio e i cognomi terminanti in vocale. Nel frattempo, erano apparse una terza e una quarta generazione la cui italo-americanità era problematica. Quando conoscevano il loro nonno o nonna, essi potevano avere una qualche impressione del loro ricco retroterra, ma molti non avevano alcuna idea della propria storia familiare, eccetto per il fatto che i loro antenati venivano da «qualche parte in Italia». Presto, si sarebbe potuto pensare, l'immigrazione italiana non sarebbe stata altro che una nota a piè di pagina nella storia degli Stati Uniti [55] . La rivoluzione culturale degli anni sessanta ebbe fra le sue conseguenze l'affermazione delle identità particolaristiche di molti gruppi, inclusi gli italo-americani. Una molteplicità di cause, l'opposizione alla guerra del Vietnam, il movimento del Black Power, la liberazione delle donne, tra le altre, condussero alla frammentazione della società americana. Dalla constatazione che il Melting Pot fosse un mito derivarono intensi dibattiti su come dovesse essere la nuova America. Gli italo-americani, in genere, si schierarono dal lato conservatore di queste battaglie culturali. Appartenendo in gran parte alla piccola borghesia, sposavano i valori tradizionali, imbevuti del «culto della gratitudine», vedevano le rivolte universitarie, le insurrezioni dei neri, i roghi delle cartoline di coscrizione e dei reggiseni con sconcerto e rabbia crescenti. I temi associati al libertarismo come l'aborto, la lotta alla discriminazione e l'assistenza sociale erano lontani da molti italo-americani. Essi rispondevano spostandosi ancora più a destra verso e oltre il Partito repubblicano [56] . Agendo in difesa della famiglia, dei legami di vicinato e del patriottismo, o almeno così pensavano, gli italo-americani si ritrovarono ad essere additati dalla controcultura come «porci fascisti e razzisti». Ai tempi dei primi arrivi di italiani, la loro «bianchezza» era stata messa in discussione ed essi erano considerati un popolo «di mezzo». Una delle ragioni di questa ambiguità era la loro propensione a lavorare e vivere con gli afroamericani. Adesso, tra le ultime «etnie bianche» «avvinghiate» ai quartieri interni della città, essi si ritrovarono nel ruolo di oppositori delle richieste degli afroamericani di alloggi, lavoro e di scuole integrate. Benché animati da pregiudizi razziali acquisiti come parte della propria americanizzazione, la loro opposizione all'integrazione dei neri coinvolgeva anche uno scontro effettivo di valori culturali; italo-americani pronti alla battaglia sposarono un nuovo stile di militanza, le tattiche dell'azione diretta mediante comizi, manifestazioni e marce. Ispirate da una maggiore coscienza etnica, le organizzazioni italo-americane che si dedicavano a difendere il posto duramente conquistato negli Usa proliferavano [57] L'altro problema su cui gli italo-americani si sono mobilitati negli ultimi decenni è stato il trattamento negativo riservato loro dai media. Dagli anni ottanta dell'Ottocento, gli italiani erano stati rappresentati dalla stampa americana come ignoranti, sporchi, pigri - e criminali assetati di sangue. Nel 1891, fu loro permanentemente affibbiato il marchio infamante della mafia, cui seguì il linciaggio di undici italiani in quanto supposti assassini del capo della polizia cittadina a New Orleans. I crimini della mano nera e il ruolo di primo piano ricoperto dagli italo-americani nella guerra fra gang negli anni venti rafforzò quell'immagine. Hollywood fu pronta a sfruttare il personaggio tipico del gangster italiano. A partire da Little Caesar del 1931 seguì una sequela di film in cui apparivano malviventi italiani. Negli anni cinquanta, The Untouchables (nel quale tutti i criminali parlano con accento italiano) divenne uno dei programmi più popolari della televisione. I politici, riconoscendo il fascino che il crimine organizzato esercitava sul pubblico, apparivano in dibattiti televisivi insieme a gangsters quali Frank Costello e Joseph Vallacchi. Quest'ultimo fece entrare l'espressione cosa nostra nella lingua inglese. Non c'è da stupirsi che molti americani arrivassero a credere che tutti i criminali erano italiani e che tutti gli italiani erano, quantomeno, criminali potenziali [58] . Paradossalmente, un'esplosione di talenti cinematografici italo-americani tendeva ad amplificare, piuttosto che appannare, il tema cinematografico della criminalità italiana. Come registi e attori, Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Robert DeNiro, Al Pacino, Sylvester Stallone e Tohn Travolta crearono un'immagine degli italo-americani efficace, ma spesso spiacevole. Comunque, il ritratto più forte e influente dell'«esperienza italiana di immigrazione» sia come libro che come film è stata The Godfather. Lo scrittore Mario Puzo e il regista Francis Ford Coppola trasformarono il trito tema del crimine organizzato italiano nell'epica della famiglia Corleone. Questo elogio della via vecchia, nel quale l'autorità patriarcale, la lealtà personale e la pietà filiale creavano ordine e giustizia, catturava un generale desiderio di sicurezza in un mondo sempre più amorale e caotico. Mentre le organizzazioni italo-americane protestavano e picchettavano le proiezioni del film, molti italo-americani lo accolsero come l'incarnazione iconica della loro eredità e identità [59] . In un clima di pluralismo, mentre altri affermavano la propria identità e storie particolari, alcuni italo-americani cercavano la loro oltre la leggenda cinematografica. Mettendo in dubbio l'assunto che gli italo-americani non avessero una storia, venne fondata, nel 1966, l'American Italian Historical Association con lo scopo di legittimare il campo degli studi italo-americani. In seguito, sono stati pubblicati centinaia di libri accademici e migliaia di articoli che esplorano i molteplici e complessi ruoli che hanno giocato gli italiani negli Usa. Scrittura creativa, romanzi, poesie, opere di teatro e film trasformarono l'esperienza italo-americana in un'espressione artistica. Dopo un secolo di silenzio, gli italiani in America avevano finalmente trovato la loro pubblica voce, non come un coro ma piuttosto come una cacofonìa di suoni discordanti, polemiche, stridenti. Un aspetto notevole di questo fenomeno letterario è dato dal ruolo di scrittrici donne come Helen Bertolini e Camille Paglia. Nipoti di immigrate silenziose, esse hanno cercato di esprimere che cosa significhi essere donne e italo-americane [60] .
10. Chi sono oggi gli italo-americani?
Nel frattempo, l'Italia, che era stata vista dagli americani o come un museo o come un'opera buffa, divenne maestra di stile nel design moderno di vestiti, mobili, cucina, automobili, film. L'immagine mentale degli immigrati italiani grezzi e volgari fu rimpiazzata da quella degli italiani moderni, alla moda e sofisticati. I turisti, e fra di essi molti italo-americani, erano attratti non solo dalle antichità dell'Italia, ma dalla sua modernità. Con la moda degli oggetti italiani, molti italo-americani in cerca di un'identità definita si volsero alla madrepatria. Non tutti andando esclusivamente in cerca di falsi stemmi familiari; molti erano semplicemente soddisfatti di rintracciare le proprie origini contadine in Calabria o in Toscana e di scoprire lontani cugini nei paesi dei loro antenati [61] . Questa «rinascita etnica» si manifestava nel rinverdirsi di vecchie organizzazioni, quali i Sons of Italy, e nella fondazione di nuove organizzazioni come la National Italian American Foundation (Niaf). Con sede principale a Washington, la Niaf, composta dall'élite italo-americana, funzionava come lobby etnica e organizzazione difensiva, e promosse relazioni con il governo e il mondo degli affari italiani. A livello popolare, rinacquero le feste dei santi, che erano state sospese o confinate a piccoli gruppi di fedeli; le società, ora centenarie e formate dai nipoti degli immigrati, celebravano i giorni di festa in modo tradizionale, portando le statue in processione. È difficile capire quanta parte di questa osservanza sia dovuta a devozione religiosa e quanta a nostalgia [62] . Molte Little Italies, ridotte spesso a un ammasso di ristoranti, negozi e caffè con pochi residenti italiani, divennero riserve etniche per turisti, benché fungessero anche da «casa» per gli sparsi italo-americani. Nonostante i ritratti revisionisti della figura di Colombo che lo rappresentavano come un genocida razzista, gli italo-americani persistevano, a fronte delle proteste degli indiani americani e di altri, a celebrare il 12 ottobre. Eventi cittadini come la «Festa italiana» di Milwaukee, un miscuglio di cultura etnica e popolare, di sacro e profano, attraevano centinaia di migliaia di persone, inclusi non italiani. Organizzazioni come l'Italian Cultural Society di Sacramento in California e l'Iltalian Club di Tampa in Florida, organizzano conferenze, mostre d'arte, concerti e viaggi di esplorazione dell'eredità italiana. Nell'educazione superiore, lo studio dell'italiano si è andato diffondendo mentre quello delle altre lingue è in calo. Percependo la nuova tendenza, Unico National ha creato nuove cattedre di studi italiani e italo-americani nelle università. Nel frattempo, esprimendo un rinnovato interesse e orgoglio per le culture regionali, Arba Sicula, un'associazione culturale internazionale con sede principale a Brooklyn, e Piemontesi nel Mondo of Northern California hanno cercato di preservare e rinverdire le tradizioni, inclusi i dialetti [63] . All'alba di un nuovo millennio, quale è dunque lo status degli italo-americani negli Usa e quali sono le prospettive di persistenza dell’etnicità italo-americana? Il sociologo Richard Alba ha coniato l'espressione «crepuscolo dell'etnicità» per descrivere la condizione di assimilazione nella quale ora essi si trovano, intendendo che il loro retroterra di immigrati è privo di un autentico significato nelle vite degli americani di origini italiane. Certamente ci sono persone i cui cognomi finiscono con una vocale che non hanno la minima conoscenza della propria eredità etnica o che non nutrono per essa il benché minimo interesse. Tuttavia, oltre un secolo dopo che gli immigrati cominciarono ad arrivare ad Ellis Island, molti dei loro discendenti rimangono un gruppo etnico visibile e cosciente di sé, coinvolti più attivamente che mai nella cultura e nella politica degli Usa. A mio parere, ciò che ha avuto luogo è una transizione da una forma primitiva di etnicità - basata su legami di parentela e conterraneità, che incarnava una cultura contadina - a una forma moderna, istituzionalizzata, transnazionale e strumentale, pienamente integrata nella società americana e che rappresenta tutti gli strati socio-economici della popolazione italo-americana [64] . Come ha recentemente osservato Maddalena Tirabassi, ci troviamo ad affrontare un enigma: la discrepanza tra le condizioni reali e lo status degli italo-americani e la loro immagine collettiva diffusa dai media e radicata nell'immaginario dei loro connazionali americani [65] . Vari indicatori empirici di occupazione, reddito ed educazione segnalano che, nel 1990, gli americani di origine italiana nella maggior parte di questi settori erano piazzati al di sopra, sebbene non di molto, dell'americano medio. In confronto con altre popolazioni di origine europea, comunque, gli italiani erano appena al di sotto in termini di istruzione; su scala occupazionale, essi erano avanti agli irlandesi e ai tedeschi, ma dietro ai greci negli impieghi manageriali, professionali, tecnici, commerciali e amministrativi di più alto prestigio; lo stesso valeva in termini di reddito. Popolazioni di origini italiane e polacche si equivalevano, grosso modo, in questi dati. È interessante notare che le popolazioni di origine russa (per lo più ebrei) hanno avuto la meglio in tutte e tre queste categorie [66] . Questi dati suggeriscono che i nipoti e i pronipoti degli immigrati semi-analfabeti e poveri hanno, per lo più, raggiunto uno status di classe media o leggermente più alto nella società americana. Sempre nel 1990, più del 30% avevano ottenuto una laurea o qualifiche post-laurea; gli oltre due terzi erano in occupazioni impiegatizie; e la famiglia media aveva un reddito medio annuale di oltre 50 000 dollari. Ci sono volute diverse generazioni, ma, alla fine, gli italo-americani sembrano aver raggiunto la "Terra Promessa". La presenza dei membri di un gruppo etnico in posizioni di potere e prestigio può servire da ulteriore indicatore di «successo americano.» Anche in questo, la frequenza con cui nomi italiani appaiono nelle cronache dei «grandi e potenti» costituisce una solida prova del successo degli italiani. Dopo la tragedia dell' 11 settembre, il sindaco Rudy Giuliani è probabilmente il personaggio più popolare negli Usa. Altri uomini di successo, oltre a quelli già citati, includono Lee Iacocca, ex presidente e direttore generale della Chrysler Corporation, A. Barlett Giamatti, ex presidente dell'Università di Yale; Antony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, Richard Grasso, direttore della Borsa di New York, Leon Panetta, capo dello staff del presidente Clinton , Patricia F. Russo, presidente e direttore generale della Eastman Kodak Company, e la lista potrebbe continuare [67] Tuttavia, la fama di grandi criminali definisce tuttora gli italo-americani nell'immaginario del pubblico. In anni recenti, il programma televisivo americano più popolare è stato The Sopranos, un serial televisivo, vincitore di un Emmy Award, che tratta di una famiglia criminale italo-americana. Oltre ad aver ricevuto grande plauso per la sue caratterizzazioni e la sceneggiatura, nello scorso anno sono stati pubblicati cinque libri di taglio accademico che parlano di The Sopranos in quanto fenomeno culturale [68] . Il primo episodio della quarta serie ha attratto l'audience più alta mai raggiunta da un canale a pagamento, 13 400 000 telespettatori. Inutile a dirsi, il suo creatore e regista, David Chase (cognome: De Cesare), il suo personaggio principale, Tony Soprano (interpretato dall'attore James Gandolfini), e praticamente tutto il cast hanno antenati italiani. Mentre The Sopranos ha sollevato le indignate proteste delle associazioni italo-americane, molti italo-americani sono suoi fedeli spettatori grazie alla capacità di rappresentare in modo autentico aspetti di quella realtà etnica [69] . I difensori militanti della reputazione italo-americana si infuriano con il programma senza peraltro alcun esito. Nonostante il fatto che la storia ricca di eventi degli italiani negli Stati Uniti abbia fornito abbondante materiale per libri e film su una varietà di temi, il pubblico americano continua a rintracciare nel crimine il tratto distintivo dell'esperienza italo-americana.
* Riproduciamo, ringraziando l’editore Donzelli di Roma per il permesso accordatoci, il saggio pubblicato nel volume Storia dell’emigrazione italiana- Arrivi, che rispecchia, in forma articolata ed approfondita, l’intervento svolto dallo studioso americano nel corso del Convegno. © 2002 Donzelli editore, Roma Via Mentana 2b. (*) Docente di storia contemporanea e direttore dell’Immigration History Research Center presso la Minnesota University
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Per quanto riguarda questo periodo sono anche disponibili racconti orali; si vedano The Italians of Chicago e Minnesota’s Italians, in Oral History Collections at the Immigration History Research Center University of Minnesota. Mary Ellen Mancina Batinich ha curato la raccolta di entrambe le collezioni. [43] Cfr.la nota 41. [44] Il primo di questi nomignoli dispregiativi designava genericamente gli immigrati di razza latina, gli altri due specificamente gli immigrati italiani (n.d.t.). [45] L. Covello, The Social Background of the Italo-American School Child, E. J. Brill, Leiden, Netherlands, 1967; C. Johnson, Groowing Up and Groowing Old in Italian American Families, New Brunswick, NJ, 1985; C. Azen Krause, Grandmothers, Mothers and Daughters: Oral Histories of Three Generations of Ethnic American Women, Boston, 1991; J. Smith, Family Connections: A History of Italian and Jewish Lives in Providence Rhode Island, 1900-1940, Albany, 1985 [46] I. Child, Italian or American? : The Second Generation in Conflict, Yale University Press, New Haven, 1970; D. Tricario, The Italians of Greenwich Village, Center for Migration Studies, New York, 1984. [47] Balancing Two Cultures: The Lives of Immigrant Children, in “Spectrum”, Immigration History Research Center University of Minnesota, 5, 1988. Le autobiografie, i romanzi e i racconti orali sono fonti eccellenti per la comprensione dell’esperienza degli italo-americani di seconda generazione. Cfr. F. Gardaphé, The Evolution of Italian American Autobiography e M. J. Bono, The Italian America Coming-of-Age Novel, entrambi in D’Acierno (a cura di) 1999; Si vedano inoltre le voci Autobiography e Novels and Novelist, in LaGumina, Cavaioli, Primeggia, Varacalli, (a cura di) 2000. [48] Per quanto riguarda l'impatto degli italo-americani sulla cultura popolare, si vedano le voci Sports, Pop Singers e jazz, in LaGumina, Cavatoli, Primeggia, Varacalli (a cura di) 2000; inoltre la Parte IV, The Italian American Presence in the Arsi, in D'Acierno (a cura di) 1999. [49] R. Vecoli, Making and Unmaking of an Italian American Working Class (in corso di stampa); Cohen, 1990; J. R. Barrett, Americanisation from the Bottom Up: Immigration and the Remaking of the Working Class in the United States, 1880-1930, in “The Journal of American History” LXXIX, 3, 1992, pp 996-1020; J. Namias, First Generation: In the Words of Twentieth Century Immigrants, Beacon Press, Boston, 1978. [50] D. Bell, Crime as an American Way of Life: A Queer Ladder of Social Mobility, in The End of Ideology, New York, 1961; F. J. Ianni, A Family Business, Kinship and Social Control in Organized Crime, Russel Sage Foundation , New York, 1972; L. J. Iorizzo (a cura di), An Inquiry into Organized Crime, American Italian Historical Association, New York, 1970. [51] J. Landesco, Organized Crime in Chicago, University of Chicago Press, 1968; H. S. Nelli, The Business of Crime: Italians and Syndacate Crime in the United States, University of Chicago Press, Chicago, 1976; M. Haller, Organized Crime in Urban Society: Chicago in the Twentieth Century, “Journal of Social History”, 4, Winter, 1971; F. Pasley, Al Capone: the biography of a self-made man, Books for Libraries Press, Freeport, 1971. [52] S. LaGumina, New York at Mid-Century: the Impellitteri Years, cit.; S. Luconi, Italian-American Voters and the “Al Smith Revolution”, cit.; G. Ferraro, Ferraro. My Story, Bantam Book, New York, 1985; T. Kessner, Fiorello H. La Guardia and the Making of Modern New York, Penguin Books, New York, 1989; G. Meyer, Vito Marcantonio, Radical Politician, 1902-1954, Suny Press Albany, 1989. [53] L. Di Stasi (a cura di), Una Storia Segreta: The Secret History of Italian American Evacuation and Internment during World War II, Haydey Books, Berkeley CA, 2001; U. S. Department of Justice, Report to the Congress of the United States A Review of the Restrictions on Persons of Italian Ancestry during World War II, Washington, D.C., November 2001. [54] N. Glazier, D. Moynihan, Beyond the Melting Pot: The Negroes, Puerto Ricans, Jews, Italians, and Irish of New York City, M.I.T. Press, Cambridge, MA, 1963. [55] R. D. Alba, Italian Americans: Into the Twiligth of Ethnicity, Prentice Hall, Englewood Cliffs, NJ, 1985; M. Eula, Between Peasant and Urban Villager: Italian Americans in New Jersey and New York, 1880-1980, P. Lang, New York, 1993; R. Vecoli, The War and Italian American Syndacalist, cit. [56] S. LaGumina, New York at Mid-Century: the Impellitteri Years, cit. [57] J. R. Barret, D. R. Roediger, Inbetween People. Race, Nationality and the “New Immigrant” Working Class, in “Journal of American Ethnic History”, XVI, 3, 1997, pp 5-44; R. F. Harney, Italophobia: An English-speaking Malady?, in “Studi Emigrazione”, XXII, 77, 1985, pp 6-42; R. Orsi, The Religious Boundaries of an Inbetween People: Street Feste and ythe Problem of the Dark-Skined Other in Italian Harlem, 1920-1990, in “American Quaterly”, XLIV, 3, 1992, pp 313-335; J. Rieder, Canarsie: The Jews and Italians of Brooklyn Against Liberalism, Cambridge, MA, 1985. [58] J. L. Albini, The American mafia. Genesis of a legend, New York, 1971; W. Moore, The Kefauver Commitee and the Politics of Crime, 1950-1952, Columbia, MO, 1974; D. C. Smith, The Mafia mystique, Basic books, New York, 1975; C. Cortes, Italian-Americans in Film: From Immigrants to Icons, in “Melus”, 14, 1987; L. Friedman (a cura di), Unspeakable Images: Ethnicity and the American Cinema, Urbana, 1991; R. Miller (a cura di), The Kaleidoscopic Lens: How Hollywood Views, Ethnic Groups, New York, 1980. [59] P. D’Acierno, Cinema Paradiso: The Italian-American Presence in American Cinema, in The Italian American Heritage: A Companion to Literature and Arts, a cura di P. D’Acierno, Garland Publishing Co, New York & London 1999; L Lourdeaux, Italian and Irish Filmmakers in America: Ford, Capra, Coppola and Scorsese, Temple University Press, Philadelphia, 1990. [60] Per quanto riguarda saggi sulla letteratura italo-americana, si veda Parte III, Writings as an Italian American, in P. D’Acierno (a cura di) The Italian American Heritage, cit.; M. Bona (a cura di), The Voices We Carry: Recent Italian/American Women’s Fiction, Guernica, New York, 1994; F. J. Cavaioli, The Rise of Italian American Studies and the American Italian Historical Association, in “The Italian American Review”, 5, Sping, 1996; F. Gardaphè, Italian Signs, American Streets, Duke University Press, Durham NC, 1996. [61] J Colletta, Finding Italian Roots: The Complete Guide for Americans, Genealogical Society of America, Baltimore, 1993. [62] Sia L’Order Sons of Italy che la National Italian American Foundation tengono a Washington sontuosi incontri annuali per la raccolta di fondi cui partecipano celebrità, importanti uomini d’affari, professionisti e politici, incluso il Presidente degli Stati Uniti. Nel frattempo, le tradizionali feste dei santi sono state rivitalizzate dai discendenti degli immigrati. A Chicago, quasi ogni domenica, durante l’estate, si può assistere a una o più di queste feste organizzate da società, alcune delle quali ultracentenarie. Si veda un qualsiasi numero di “Fra Noi. Chicagoland’s Italian American Voice”. [63] J. Krase, Ethnic Neighborhoods, in S. LaGumina, F.J. Cavaioli, S. Primeggia, J. A. Varacalli (a cura di), 2000; J. Maselli (a cura di), Year 2000, Where Will Italian American Organizations be in the Year 2000?, National Italian American Foundation, Washington, DC, 1990. [64] R. D. Alba, Italian Americans: Into the Twilight of Ethnicity, cit. Per il punto di vista dell’autore si veda R. Vecoli, “Primo Maggio” in the United States, cit. Per il concetto di etnicità su cui è basata la mia posizione, si veda K. Conzen e altri, The Invention of Ethnicity: A Perspective from the USA, “Journal of American Ethnic History”, 12 (Fall), 1992. [65] M. Tirabassi, La radice è mia e me la gestisco io, in “La Stampa” 29 luglio 2002. [66] US Bureau of the Census, CPH-L-149 Selected Characteristics for Persons of German / Greek / Irish / Polish / Russian Ancestry: 1990 (www. Census. Gov / population / socdemo / ancestry); G. Battistella (a cura di), Italian Americans in the ‘80s: a Sociodemographic Profile, Center for Migration Studies, New York, 1989. [67] Nomi importanti di italo-americani possono essere letti su quasi ogni numero del “New York Times” e del “Wall Street Journal”. Ci sono libri che danno conto e celebrano questi successi; si vedano: S. V. Cantoni (a cura di), Who’s Who Among Italian Americans, National Italian American Foundation Washington, DC, 1995; L. Brandi Cateura, Growing Up Italian. How Being Brought Up as an Italian-American Helped Shape the Characters, Lives, and Fortunes of Twenty-Four Celebrated Americans, William Morrow, New York, 1987. [68] G. O. Gabbard, The Psychology of “The Sopranos”, Basic Books, New York, 2002; R. Barreca (a cura di), A Sitdown with the Sopranos: Watching Italian American Culture on TV’s Most Talked-About Series, Palgrave Macmillan, New York, 2002; D. R. Simon, Tony Soprano’s America: The Criminal Side of the American Dream, Westview Press, Boulder, Co, 2002; M Yacowar, The Sopranos on the Couch Analysing Television’s Greatest Series, Continuum, New York, 2002; D. Lavery (a cura di) This Thing of Ours: Investigating “The Sopranos”, Columbia University Press, New York, 2002. [69] Il dibattito fra gli italo-americani riguardo ai meriti (o demeriti) di The Sopranos ha avuto luogo nel corso di cene, di incontri delle associazioni e su Internet. Per averne almeno un’idea ci si può collegare a H-ITAM@H-Net.MSU.EDU per partecipare al dibattito tuttora in corso.
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