ROSA
vita di una emigrante italiana
di MARIE HALL ETS
prefazione di Rudolph J. Vecoli
note introduttive di Helen Barolini
Titolo originale:
Rosa, the life of an Italian immigrant
© 1970 University of Minnesota
ISBN-0-8166-0574-2
© 2003 Ecoistituto della Valle del Ticino
Edizione italiana :
Via S. Rocco 9 – 20012 Cuggiono
Tel.02.974075-02.9746502
Questa è la storia di Rosa Cavalleri (1866-1943) una italiana che emigrò negli Stati Uniti nel 1884. Un vivido, ricco e dettagliato resoconto della vita di questa emigrante che partita da Cuggiono, piccolo paese di contadini in riva al Ticino, si stabilirà in America, nella cittadina mineraria di Union nel Missouri, e in seguito nella caotica Chicago di inizio novecento.
La sua biografia raccolta da Marie Hall Ets, negli anni seguenti la prima guerra mondiale, è un eloquente resoconto e insostituibile testimonianza della vita nei paesi lombardi di fine ottocento e della dure condizioni della emigrazione italiana nel nuovo mondo.
L’esuberante personalità di Rosa, il suo spirito indomabile e la sua abilità come narratrice, fanno di questa biografia un contributo pressoché unico negli annali dell’immigrazione italiana negli Stati Uniti, divenendo fin dalla prima edizione americana del 1970 un riferimento importante tra gli storici dell'emigrazione e del movimento femminile americano.
Questa prima edizione in lingua italiana, realizzata da un gruppo di suoi concittadini, colma un vuoto e vuole essere un tassello affinché nel recuperare la memoria di “quando a emigrare eravamo noi” e si possa guardare al presente e al futuro non dimenticando il nostro passato.
Marie Hall Ets (1895-1984) scrittrice americana, fu insignita della Caldecott Medal per il libro "Nine days to Christmas".
Foto di copertina: Rosa Cavalleri mentre racconta le sue storie ai bambine dei Chicago Commons. Fonte: Chicago Historical Society
Ringraziamenti
Questa prima edizione italiana di «Rosa», testo piuttosto conosciuto nella sua versione originale americana, non avrebbe mai potuto vedere la luce se un folto gruppo di suoi concittadini - in prevalenza giovani donne - acco-gliendo la proposta dell’Ecoistituto della Valle del Ticino, non avesse tradotto il libro. Questa azione insolita dal punto di vista editoriale e per molti versi anomala, ben corrisponde a quella voglia di riscoprire la propria storia, che, tra l’ottocento e il novecento fu profondamente segnata dal massiccio fenomeno migratorio verso il nuovo mondo, che nel «contado di Cuggiono» registrò percentuali tra le più alte d’Italia.
La pubblicazione di questo testo vuole essere, non solo un doveroso omaggio a tutti coloro che, come Rosa, furono costretti a cercare il proprio riscatto sociale lontano dalla loro terra, ma anche un primo passo di un percorso della memoria contro l’oblio, affinché la comprensione del passato, di quando a emigrare eravamo noi, ci aiuti a capire il presente e a costruire un futuro fraterno, solidale, di tolleranza e di pace.
Un grazie quindi a Francesca De Mattei, Cristian Osnaghi, Anna Rainoldi, Isabella Stucchi, Stefania Esposito, Claudia Balducci, Stefania Carabelli, Jennifer Trovato, Enrica Castiglioni, Antonietta Marino, Marta Testa, Irene Garavaglia, Bruno Berra, Laura Bonfiglio, Elisa Garavaglia, Matteo Brovelli, Fulvio Girotto, Davide Magni, Nicoletta Lovati, Laura Locati, Antonio Oriola, Paolo Boccardo, Marta Oriola, Angela Ballarati, Stefano Molino, Emanuela Pisoni,, Nora Ricetti, Paola Berra, Roberta Calcaterra che hanno collaborato con entusiasmo alla traduzione.
Un ringraziamento particolare al Dr. Ernesto Milani senza il quale non sa-remmo mai venuti a conoscenza dell’esistenza di questa biografia; al Dr. Alvaro Strada per i preziosi suggerimenti, a Stefania Forlani , Miriam Olgiati ed Eva Ferrario, che con il sottoscritto ed Ernesto Milani hanno curato la revisione del testo; a Don Franco Roggiani che ci ha fornito un prezioso supporto logistico e al Professor Rudolph J. Vecoli, dell’Univer-sità del Minnesota che con il suo caloroso appoggio ci ha ripetutamente incoraggiato a proseguire questa emozionante avventura. E per finire, un grazie di cuore a te Rosa, da parte di tutti noi per ciò che ancora oggi, a distanza di tanto tempo, ci stai dicendo.
Grazie Rosa, bentornata a casa.
Oreste Magni
Ecoistituto della Valle del Ticino
Cuggiono, 22 maggio 2003
"Uno dei meriti che fanno del racconto di Rosa un documento storico è la ricchezza e la propensione ad inoltrarsi nei dettagli che si soffermano nel descrivere le condizioni di vita delle popolazioni lombarde di quel periodo. Quando ci racconta dei suoi giorni a Cuggiono ci si trova, come d’incanto, immediatamente immersi in quella lontana realtà, penetriamo nella complessa trama dei rapporti familiari, comprendiamo le relazioni che intercorrevano tra padroni e operai, inquadriamo l’importante funzione di controllo esercitata dal clero nel governo spirituale di quelle piccole comunità. Il suo resoconto sull’allevamento dei bachi e sulla filatura della seta, non mancherà di colpire ed affascinare molti lettori".
Rudolph J. Vecoli – Università del Minnesota
"La storia di Rosa è una storia dell’animo umano e come tale riguarda non solo quelli che arrivarono dall’Italia in America, ma tutti quelli che si stabiliscono in un paese diverso da quello d’origine.
La sua è una storia eroica, che emerge dal silenzio che avvolge le altre storie di milioni di uomini non identificati che approdarono in America durante i decenni delle grandi migrazioni.
La pubblicazione di questo libro è un progetto di grande importanza. La storia movimentata della vita di questa donna è fondamentale per capire l’epico esodo dall’Europa agli Stati Uniti nel diciannovesimo secolo, perché corregge lo squilibrio che le statistiche storiche hanno ignorato, non considerando i poveri, gli analfabeti, la gente comune e soprattutto le donne".
Helen Barolini
Avere finalmente nelle mani una edizione italiana di "Rosa" è per me una grande soddisfazione.
Questa traduzione e pubblicazione è il risultato di un atto d’amore di numerosi concittadini di "Rosa", della sua gente di Cuggiono, e ciò conferisce ad essa un particolare valore.
Pensare che questa ragazzina quantunque già sposa e madre, partita per l’America centodiciannove anni fa, sia ora tornata al suo paese come una figura storica, come una eroina d’una avventura piena sì di sfortune e tragedie, ma anche esempio di coraggio e spirito indomabile suscita in me una grande emozione.
VIVA ROSA!
Che tra i milioni d’emigranti partiti dall’Italia, "Rosa" sia sopravvissuta all’oblio del tempo e` di per sè un piccolo miracolo. Lo dobbiamo a Marie Hall Ets che ha avuto la saggezza e la pazienza di scrivere parola per parola ciò che Rosa raccontava, e all’ accortezza di Lea Taylor, figlia di Graham Taylor, fondatore del Chicago Commons, la casa di accoglienza dove «Rosa» era impiegata come cameriera, che conservò lo scritto.
Per pura coincidenza durante le mie ricerche sugli Italiani di Chicago ho incontrato Ms. Taylor che mi ha consegnato il mano-scritto. Leggendo queste memorie sono stato colpito dal loro valore come documento umano e storico.
La prima edizione libro venne realizzata dall’ University of Minne-sota Press nel 1970. Stampato in poche copie l’edizione venne rapi-damente esaurita.
Storici dell’emigrazione e del movimento delle donne hanno riconosciuto il valore di "Rosa" e ne hanno pubblicato brani in diverse antologie, tanto che i miei colleghi mi hanno esortato a ripubblicarla in edizione paperback per studenti. L’University of Wisconsin Press lo ha fatto in questa nuova veste nel 1999, con una foto di "Rosa" mentre racconta fiabe alle ragazzine dei Chicago Commons.
"Rosa" è ora un classico nella letteratura storica dell’immi-grazione e del movimento femminile negli Stati Uniti. Molti studiosi hanno preso ispirazione dall’ autobiografia di questa umile conta-dina di Cuggiono.
Spero che questo possa avvenire anche ai lettori italiani della nostra "Rosa".
Prof. Rudolph J. Vecoli
University of Minnesota
13 maggio 2003
NOTE INTRODUTTIVE di Helen Barolini
Quindici anni fa quando mi è venuta l’idea del libro The Dream book, una raccolta di scritti di donne italo-americane e ho iniziato a cercare materiale autobiografico del diciannovesimo secolo, mi sono resa conto che non esiste quasi niente riguardante le esperienze dirette di donne italiane immigrate in America, scritte o trascritte da una trasmissione orale. Ho trovato due fonti. Un diario di una suora che si era stabilita nell’ovest e il racconto di Rosa Cavalleri.
La maggior parte delle donne che immigrarono erano non solo analfabete, ma anche impoverite e ogni giorno coinvolte nella lotta per la sopravvivenza in una terra sconosciuta e conseguentemente non possedevano le capacità per scrivere, in diari o lettere, i loro pensieri e le loro vicissitudini quotidiane come avevano invece fatto alcune delle donne anglo-americane che si erano stabilite in America.
Possediamo solo delle statistiche e una versione molto generalizzata che ci indica la loro provenienza, come vivevano e dove si stabilirono nel nuovo mondo. La maggior parte della storia delle loro vite come sono state raccontate è andata perduta.
Rosa: The life of an Italian Immigrant , raccolta e scritta da Marie Hall Ets, un’assistente sociale di Chicago che divenne amica di Rosa è l’essenza, il racconto originale della vita di una donna italiana dalla sua nascita in Lombardia alla sua immigrazione nella regione delle miniere di ferro del Missouri, dove fu mandata all’età di 18 anni per ricongiungersi con l’uomo brutale che era stata obbligata a sposare.
Le date di Rosa (1866-1943) personalizzano la sua storia, così come i suoi dettagliati racconti dei luoghi delle sue origini, le filande dove Rosa aveva lavorato dall’età di sei anni fino al momento in cui partì per l’America, il paese e le usanze religiose del tempo e la dura rappresentazione delle fatiche sostenute dagli immigranti anche nella terra promessa.
La personalità spiccata di Rosa e l’abilità con cui sa raccontare le storie le rende più che mai reali. Era un’artista nata e fu per uno scherzo del destino che conobbe la signora Ets che trascrisse le sue parole in un racconto. Ha naturalmente cambiato i dati personali di Rosa e delle altre persone.
La storia di Rosa non è solo una storia italiana, ma una storia universale di una persona che riesce a reinventarsi nonostante le miserie e i dolori, grazie a un ambiente più libero. La sua fede, come lei chiamava la sua strong religion, l’ha sostenuta in tutta la sua vita. Il grosso regalo che l’America ha fatto alla gente come lei è averla liberata dalla paura e dalla superstizione: «La povera gente del mio paese in Italia rideva, cantava e raccontava storie, ma aveva sempre paura. In America le persone ricche insegnano ai poveri a non avere paura, ma in Italia la povera gente non osava guardare in faccia ai ricchi. Tutto quello che i poveri sapevano lo apprendevano l’uno dall’altro nei cortili, nelle stalle o alla fontana quando andavano a prendere l’acqua in piazza. E avevano sempre paura. In America ho imparato a non avere paura».
Quando Rosa, suo malgrado, lasciò l’Italia per ricongiungersi al marito che detestava, la mamma adottiva le disse: «Non essere triste, in America diventerai furba e non sarai più cosi povera».
Povera, rimase anche in America, anche dopo che scappò dal marito che abusava di lei, divorziò e si risposò con un uomo gentile. Lavorò duramente tutta la sua vita, lavando i pavimenti, la biancheria, cucinando, facendo le pulizie e dando alla luce i suoi numerosi figli in condizioni miserabili.
Si realizzò, acquisì stima in se stessa, grazie all’abilità di intrattenere la gente con le sue storie e capì che lei, una persona povera, poteva parlare a quelli che, come le avevano insegnato al paese, erano superiori a lei.
La storia di Rosa non ha niente del solito libro «dagli stracci agli allori», come la maggior parte delle storie di uomini immigrati, ma una storia dell’animo umano e come tale riguarda non solo quelli che arrivarono dall’Italia in America, ma tutti quelli che si stabiliscono in un paese diverso da quello d’origine. La sua è una storia eroica, che emerge dal silenzio che avvolge le altre storie di milioni di uomini non identificati che approdarono in America durante i decenni delle grandi migrazioni.
Rosa possedeva un grande talento nel raccontare storie e rappresenta la versione più umile della grande tradizione dell’improvvisazione e della recitazione che fiorì in Italia e divenne memorabile nella «Corinna il romanzo di un’improvvisatrice» di Madame de Stael. L’arte di Rosa ha radici profonde nella grande tradizione della commedia dell’arte, che ancora esiste in Italia. Rosa possedeva una grande abilità nel raccontare storie e amò così tanto l’arte drammatica che riuscì sempre a mettere da parte qualche spicciolo per andare a vedere a Chicago i primi spettacoli cinema-tografici.
Imparò a raccontare le storie dai contadini del suo paese della Lombardia che nelle notti invernali si riunivano nelle stalle per potersi scaldare con il calore che emanavano le bestie (un caldo di cui sentì la mancanza nel sottotetto dello stabile dove abitava a Chicago e dove, con il gelo sulle pareti, diede alla luce uno dei suoi figli, che in seguito morì a causa del freddo). Le scene dei racconti nelle stalle, che Rosa ci ha lasciato sono state descritte nel film «L’albero degli zoccoli» uscito alcuni anni fa.
La pubblicazione del libro di Rosa è un progetto di grande importanza. La storia movimentata della vita di questa donna è fondamentale per capire l’epico esodo dall’Europa agli Stati Uniti nel diciannovesimo secolo, perché corregge lo squilibrio che le statistiche storiche hanno ignorato, non considerando i poveri, gli analfabeti, la gente comune e soprattutto le donne.
Nota di Ernesto Milani
I Cuggionesi e naturalmente tutti i lettori della versione italiana di “Rosa, vita di una emigrante italiana”, pubblicata dall’Ecoistituto della valle del Ticino nel 2003, si sono chiesti subito che cosa mai fosse il torno. Il libro inizia proprio con la descrizione del torno o ruota dell’ Ospedale di Santa Caterina alla ruota dove anche Rosa, come centinaia di altri bambini, fu deposta dalla madre per essere affidata all’assistenza pubblica. Anche Rosa, come altri bimbi, fu data in baliatico ad una famiglia dell’Alto Milanese, Cuggiono nel suo caso, e la sua vicenda proseguì poi con la sua emigrazione in l’America.
La dottoressa Flores Reggiani ha curato, con l’aiuto di altri studiosi, un volume che racconta in dettaglio la storia dell’assistenza all’infanzia della città di Milano e provincia con l’occhio della ricercatrice. Forte del suo straordinario impegno come responsabile dell’Istituto provinciale di protezione e assistenza all’infanzia (IPPAI), il complesso archivistico che raccoglie tutta la documentazione inerente agli infanti abbandonati, la Reggiani contribuisce a smitizzare molti luoghi comuni e a narrare la storia vera dell’aiuto e dell’assistenza all’ infanzia abbandonata.
La documentazione prodotta è ponderosa sia dal punto di vista bibliografico sia da quello iconografico e testimonia l’importanza di ordinare storicamente gli avvenimenti meno noti della nostra vita quotidiana così familiari e così sconosciuti.
Ernesto R Milani
Il brano seguente è tratto dalla presentazione del libro:
“Si consegna questo figlio”
L’assistenza all’infanzia e alla maternità dalla Ca’ Granda alla Provincia di Milano (1456-
1920)
a cura di Maria Canella, Luisa Dodi, Flores Reggiani
Milano, Skira, 2008
Non molti sono i cittadini che, oggi, passando accanto al bel palazzo neo-romanico di Viale Piceno,
ora sede di alcuni uffici della Provincia, ricordano la sua primitiva funzione, anche se, non
casualmente, la vicina piazza è intitolata all’arciprete Dateo: secondo la tradizione, il fondatore del
più antico brefotrofio, o ricovero per trovatelli, sorto proprio a Milano nel 787, pochi anni dopo la
fine del dominio longobardo.
Inaugurato nel lontano 1912 nella località detta Acquabella, il nuovo Brefotrofio di Milano ricevette
nei decenni seguenti la visita di personaggi illustri: nel registro di firma, conservato in archivio,
troviamo non solo presenze di repertorio come quelle di Vittorio Emanuele III, di Mussolini, o del
Principe Umberto, o presenze curiose come quella dell’ambasciatore cinese a Parigi, ma anche
molti autografi di medici e amministratori pubblici italiani ed europei. L’orgoglio con cui le autorità
cittadine presentavano questo edificio e l’interesse dei visitatori era più che giustificato. Prima di
procedere alla sua progettazione – progettazione di cui nel volume dà un dettagliato riscontro, anche
visivo, Maria Canella – la Provincia aveva inviato il direttore dell’Ospizio degli esposti, il dott.
Ernesto Grassi, e l’ingegnere capo, Enrico Parona, a vistare gli analoghi istituti di Berna, Zurigo,
Stoccolma, Dresda, Praga e Vienna. Per il nuovo Brefotrofio di Milano ci si voleva infatti ispirare a
quanto di più funzionale e moderno l’edilizia assistenziale europea destinata all’infanzia aveva
saputo creare. Il prodotto che ne uscì fu un’architettura d’avanguardia, ben diversa dalla precedente
sede, il vecchio e ormai fatiscente ex monastero sul Naviglio. Ma su questo torneremo.
Dalla fine del Settecento, inoltre, la fama dell’Ospizio milanese si era consolidata anche in ambito
scientifico, grazie alla Scuola d’ostetricia e all’attività di illustri chirurghi ostetrici che vi avevano
lavorato, come Pietro Moscati, Paolo Assalini o Edoardo Porro.
Soprattutto, tuttavia, l’ospizio degli esposti costituiva da secoli un’importante realtà assistenziale,
ben conosciuta dalla popolazione milanese e non solo da quella: sappiamo che, per diritto
consuetudinario, fino al 1866, avevano diritto al ricovero, oltre ai bambini della città e del contado
milanese, anche quelli provenienti dal territorio Lecchese e Varesino, cioè dai territori
corrispondenti all’antico Ducato. In realtà, vi giungevano, seppure “abusivamente”, anche da altre
aree, per esempio dal Canton Ticino. Tra il 1659 e il 1920 al brefotrofio di Milano furono
consegnati più di 350.000 fra neonati e fanciulli e nell’annesso comparto ostetrico furono assistite,
fino al 1903, molte migliaia di partorienti sole o malate: le donne, se povere, erano assistite
gratuitamente da una levatrice e, se lo desideravano, potevano lasciare il figlio tra gli esposti. Una
traccia evidente dell’ampio radicamento sociale del brefotrofio è sotto i nostri occhi. Sappiamo che
Colombo – il cognome che portarono per secoli tutti gli esposti milanesi fino al 1825 e che
richiamava l’emblema dell’Ospedale Maggiore - è tuttora uno dei cognomi più diffusi in
Lombardia. Aggiungiamo che ogni anno molte decine di discendenti dei “figli dell’ospedale” di
Milano – così venivano definiti gli assistiti del brefotrofio anche dopo il passaggio alla Provincia -
chiedono all’archivio della Provincia copia della documentazione dei loro antenati: le domande non
arrivano solo da tutta Italia, ma anche dal Sud America, dalla Francia, dagli Stati Uniti.
Questo archivio non documenta, quindi, una realtà marginale, da relegare fra la curiosità pittoresche
di un passato remoto che non ci appartiene più. Non parla nemmeno di “fenomeni” e di
comportamenti ai quali guardare “dall’alto” della nostra più matura consapevolezza dei diritti civili
e umani. Sappiamo che la tutela dei minori e l’identità familiare sono temi che appaiono ancora di
stringente attualità e forse non è pura accademia una riflessione su come nel tempo siano mutati sia
i ruoli delle istituzioni destinate a sostituire o a sostenere le famiglie, biologiche o sociali, sia le
relazioni fra genitori e figli, le responsabilità parentali, le categorie stesse di maternità, di famiglia e
di infanzia. A questi aspetti, nel volume, è dedicato il saggio iniziale, opera di Daniela Lombardi. Il
saggio è corredato da una scelta di immagini tratte dai volumi della Biblioteca di Emilio Alfieri, il
celebre direttore della clinica ostetrico–ginecologica “Mangiagalli”. L’accostamento non è casuale:
la Biblioteca, conservata presso il Fondo Apice dell’Università degli Studi, contiene infatti preziose
testimonianze della storia dell’ostetricia e della pediatria e la stessa Clinica Mangiagalli nacque
proprio quando il reparto di maternità, nel 1906, fu staccato dal Brefotrofio.
Senza perdere di vista lo sfondo storico più generale, il volume, attraverso un percorso narrativo e
visivo e utilizzando un approccio multidisciplinare, intende restituire alla memoria collettiva un
segmento della storia assistenziale e solidaristica milanese rivolta all’infanzia e alla maternità. Un
segmento che va dalla fondazione dell’Ospedale Maggiore fino ai primi anni successivi alla prima
guerra mondiale. Sono quasi 500 anni di vicende umane e istituzionali che l’archivio provinciale del
brefotrofio restituisce con una continuità, con una ricchezza e una precisione straordinarie, perché i
vari enti, avvicendandosi, ereditarono da quelli precedenti non solo gli assistiti, ma anche i
documenti che a loro si riferivano. La continuità, la ricchezza e la precisione della documentazione,
peraltro, sono di per sé testimonianza di un’efficienza gestionale ammirevole, anche se ciò che
rimane – ed è molto - è solo una piccola parte delle pratiche nominative complessivamente prodotte
nel corso dei secoli dalle varie istituzioni che si succedettero, a Milano, in questa forma di
assistenza. In più occasioni, purtroppo, già dal XIX secolo si procedette allo scarto delle cartelle e
dei registri più antichi, nonché delle serie ritenute meno importanti per la quotidiana pratica
d’ufficio, proprio perché l’enorme quantità di materiale finiva per costituire un ingombro allora
ingestibile: non dimentichiamo che un solo registro d’accettazione può pesare fino a 30-40 chili. Le
fonti nominative hanno trovato la loro naturale integrazione nella documentazione conservata
presso l’Archivio dell’Ospedale Maggiore, presso l’Archivio di Stato di Milano e presso la
Biblioteca Isimbardi, per gli atti del Consiglio Provinciale, nonché nelle fonti a stampa, in
particolare nelle ricchissime relazioni annuali dei direttori del brefotrofio, e, infine, nella ormai
corposa saggistica.
Il volume, propone, innanzi tutto, un profilo istituzionale. Ricordiamo che fra il 1456 e il 1866
l’assistenza materno infantile fu gestita dall’Ospedale Maggiore: prima nell’Ospedale di san Celso,
poi nel Quarto delle balie della Ca’ Granda – l’attuale Università degli Studi - e infine (1780)
attraverso la Pia casa degli esposti e delle partorienti in Santa Caterina alla ruota, fondata
dall’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo. Parliamo di un’attività che prevedeva varie e articolate
forme d’intervento: il ricovero anonimo attraverso la ruota, che vincolava l’istituzione all’assistenza
fino al compimento dei quindici anni dei minori sani – sempre che prima non morissero o non
venissero restituiti ai parenti – non era certo l’unico modo per entrare a far parte della famiglia
dell’Ospedale. Per i neonati poveri rimasti orfani, per i figli di donne “impotenti ad allattare” o
ricoverate per malattia erano previste accettazioni limitate al periodo dell’allattamento, ma anche
elemosine (oggi diremmo sussidi) per il periodo del baliatico. Questi generosi interventi – che si
affiancavano alla vasta azione assistenziale svolta dalla Ca’ Granda – fino al 1780 furono sorretti
esclusivamente dai ricchi lasciti e dalle donazioni dei numerosi benefattori.
In seguito il governo asburgico – e nell’intervallo napoleonico – quello cisalpino e italico non
fecero mancare sovvenzioni al brefotrofio, ma esse furono del tutto insufficienti e costrinsero
l’Ospedale Maggiore - che era proprietario di uno dei patrimoni fondiari più cospicui di tutta la
Lombardia – a contrarre mutui e svendere una parte considerevole delle sue proprietà per riuscire a
far fronte ad un carico che diveniva sempre più pressante: nel solo 1865 furono accettati 5.876
bambini. Solo nel 1866, con il passaggio alla Provincia della gestione e dell’amministrazione,
quello che era divenuto l’Ospizio provinciale degli esposti e delle partorienti poté contare
interamente sul finanziamento pubblico, ma non per questo si interruppe, anche se ovviamente si
ridusse, il flusso dei lasciti e della donazioni dei benefattori. Né l’atteggiamento della direzione nei
confronti degli assistiti divenne meno paterno. Anzi, potremmo con una certa sicurezza affermare il
contrario, se pensiamo ad alcuni direttori, vere autorità nel campo dell’assistenza ai minori, come i
medici Romolo Griffini ed Ernesto Grassi: non solo avevano il loro alloggio all’interno del
brefotrofio, ma fecero di questa istituzione e dei diritti degli esposti una ragione di vita e, nel caso di
Grassi, l’oggetto di vere e proprie battaglie civili. La Provincia di Milano, peraltro, seconda in Italia
dopo Ferrara, cercò immediatamente con la chiusura del torno (1868) di razionalizzare la gestione
dell’assistenza, limitando l’accesso ai soli figli illegittimi di genitori indigenti appartenenti alla
provincia, così come avevano richiesto per anni, ma invano, i direttori ottocenteschi al governo
asburgico. Gli ingressi crollarono immediatamente, ma, ancora agli inizi del secolo XIX, il
brefotrofio accoglieva circa mille bambini all’anno. Nel frattempo, però, molte cose stavano
cambiando: nel 1898, sotto la direzione Grassi, cominciò l’assegnazione mirata di sussidi alle madri
nubili. Un passo importante, e controverso, che significò l’interruzione del costume sociale,
consolidatosi dal secondo settecento, che richiedeva alle donne sole la separazione dai figli.
Gli altri protagonisti di questa storia sono gli esposti di Milano: “i figli e le figlie dell’ospedale”, i
colombini e le colombe. L’esposizione, cioè l’abbandono di un bambino in luogo pubblico, è pratica
antichissima, precisamente codificata negli usi e ben diversa dall’infanticidio, anche se, talvolta le
motivazioni dell’abbandono erano le stesse che inducevano al delitto. Le finalità dell’esposizione,
indipendentemente dai suoi esiti, erano del tutto opposte a quelle dell’infanticidio. Nei tempi più
antichi, quando l’estrema povertà o l’assenza di un sostegno parentale non lasciavano altra scelta, si
affidava un bambino al buon cuore di un estraneo, per offrire al piccolo una possibilità di
sopravvivenza, senza escludere, in molti casi, la speranza o l’illusione di un futuro
ricongiungimento, quando le cose fossero andate meglio. La nascita dei primi brefotrofi aprì in
seguito la via alla progressiva identificazione fra l’esposizione infantile e la consegna di un
bambino ad un’istituzione: non di abbandono dovremmo quindi parlare, ma di affidamento, di una
vera e propria delega nell’assolvimento dei doveri parentali. Proprio per questo, il titolo del volume
richiama una delle formule consuete nei biglietti che accompagnavano i bambini: “si consegna”,
non “si abbandona”. L’esposizione di un neonato o di un bambino nasceva dunque dalla mancanza
di un sostegno familiare. Tale mancanza poteva derivare dal rifiuto o dall’impossibilità paterna di
riconoscere un figlio nato fuori del matrimonio, ma non dobbiamo dimenticare che nelle società del
passato gli alti tassi di mortalità, la precarietà delle occupazioni lavorative privavano della presenza
o del sostegno economico maschile anche molte famiglie legittime. Come ormai sappiamo, almeno
a Milano, si affidavano alla carità pubblica non solo i “figli della colpa”, quanto soprattutto i figli
della povertà, legittimi o illegittimi che fossero. Confidando nella ricchezza e nella generosità di un
ente che da secoli faceva parte del loro vissuto, fino a non più di cent’anni fa decine di migliaia di
famiglie milanesi delegavano fiduciosamente le cure parentali dei loro nati (spesso non di uno solo,
ma anche interi gruppi di fratelli) alla beneficenza pubblica, semplicemente perché non avevano
alternativa. Affermava il cardinale Pozzobonelli nel 1771: “Egli è costante che la maggior parte di
questi bambini sono di legitimi natali e non è che la povertà che sforza i loro parenti ad esporli allo
spedale, perché fratanto si sollevano dal carico di alimentarli, e le madri restano in libertà per
procacciarsi il vitto col travaglio delle loro mani”. Leggiamo un biglietto: “Dolorose circostanze mi
obbligano ad abbandonare questa da me idolatrata creatura alla cura dell’Istituto per poco tempo,
così il Cielo lo voglia. Trovo inutile il raccomandare quest’angelo alla vostra beneficenza pur
troppo nota ed esemplare” (1849). Per usare le parole dello studioso cui si deve la più importante
monografia sui trovatelli milanesi, Volker Hunecke, il brefotrofio divenne, in particolare nel corso
dell’ottocento, un “pubblico stabilimento di baliatico gratuito”. Anche nei decenni successivi alla
chiusura del torno (1868) ben 3000 neonati legittimi furono falsamente denunciati dai genitori come
figli di ignoti allo stato civile, pur di poterli consegnare al brefotrofio, perché l’anonimato
consentiva ancora ai poveri di aggirare i limiti posti dai nuovi regolamenti provinciali.
Nella prospettiva del governo asburgico e dei medici milanesi la “Pia casa degli esposti e delle
partorienti in Santa Caterina” (1780) avrebbe dovuto ospitare un complesso di moderni reparti nei
quali sperimentare e applicare le metodiche delle nuove discipline scientifiche: l’ostetricia, la
pediatria, la puericultura, ma il progetto poté essere realizzato solo in minima parte. Il primo
ostacolo era costituto dai limiti oggettivi derivanti dalla precedente destinazione dell’edificio scelto
dal governo, un ex-monastero seicentesco, che sorgeva sulla riva del Naviglio opposta a quella su
cui si trovava l’Ospedale Maggiore (l’odierna Università degli studi). A questi limiti si cercò di
ovviare con ripetuti ampliamenti e ristrutturazioni nel corso dell’Ottocento: anche di queste
complesse vicende architettoniche il libro tenta una prima ricostruzione, supportata dalle immagini
(mappe, quadrettature, progetti). La possibilità di esercitare un’attenta sorveglianza igienica e
medica sugli assistiti si scontrava con il sovraffollamento degli spazi, con la drammatica mancanza
di balie interne e con l’urgenza di affidare i bambini alle nutrici di campagna. Era necessario
organizzare l’accoglimento giornaliero di decine di neonati che, gracili per la denutrizione materna,
a volte stremati da lunghi viaggi e vestiti di pochi stracci, dovevano essere immediatamente sfamati
con latte umano (o di capra): ricordiamo che l’uso del latte artificiale, sperimentato nel brefotrofio
milanese già dalla fine del settecento, poté dare i primi esiti non letali solo un secolo dopo. Era
necessario, inoltre, organizzare le consegne dei bambini alle nutrici e poi controllare, con l’aiuto dei
parroci, dei medici condotti, delle autorità locali, un vero e proprio esercito di balie e di “allevatori”
salariati, presso i quali i colombini e le colombe restavano fino ai quindici anni. Nella seconda metà
secolo diciannovesimo, gli esposti milanesi erano disseminati in un territorio che si estendeva ben
oltre la provincia, fino alle campagne di Como, di Varese, di Sondrio, di Piacenza, di Bergamo, di
Novara. Un’attività non priva di ombre drammatiche, soprattutto legate all’alta mortalità dei
bambini ricoverati, un dato che rimase costante in queste strutture, in Italia e in Europa, fino agli
esordi del secolo ventesimo. Una mortalità del 45% è un dato per noi sconcertante, ma non
dimentichiamo che la mortalità era comunque molto alta anche tra i neonati che rimanevano in
famiglia: non sappiamo se questi bambini avrebbero avuto una sorte migliore restando presso i
genitori, genitori che, peraltro, tornavano molto spesso a riprendersi i figli, a volte dopo pochi mesi,
a volte dopo anni. Forse, semplicemente, gli esposti permisero a qualche loro fratello o sorella di
sopravvivere. In ogni caso in altri brefotrofi la mortalità raggiungeva punte del 90 e perfino del
100%.
Presso gli allevatori non mancavano né lo sfruttamento, né le violenze, né gli abusi sessuali. I
direttori riferiscono episodi di fughe e di ribellioni e raccontano vicende strazianti di fanciulli che,
affidati ad una nuova famiglia o resi all’ospizio, con “commovente ostinazione” e attaccamento
verso chi li aveva maltrattati o respinti, andavano a piedi, laceri, affamati e scalzi, da un paese
all’altro alla ricerca dei loro precedenti tenutari. Non mancavano neppure, d’altra parte, gli episodi
di affidatari affezionati che non si rassegnavano a riconsegnare gli esposti, ormai cresciuti e da loro
considerati figli propri, ai genitori biologici, e tentavano vanamente di impedire il distacco. Allo
stesso modo alcuni assistiti, ormai “grandicelli”, erano comprensibilmente riluttanti a “gettarsi nelle
braccia” di parenti sconosciuti che li richiedevano solo quando potevano trarne profitto.
Dietro ai bambini, dunque, le loro famiglie. La loro presenza rivive attraverso i corredi espositivi,
cioè gli oggetti e i biglietti scritti che i genitori lasciavano tra i panni dei bambini nell’atto di
consegnarli nel torno. L’archivio ne conserva migliaia – datati fra il 1800 e il 1868. Diversamente
da quanto è accaduto negli archivi di altri brefotrofi, in cui sono stati distrutti o conservati
cumulativamente, questi oggetti sono fissati con ceralacca o spilli ai singoli processi d’esposizione
e ne costituiscono parte integrante, derivando da questi documenti il loro valore e il loro significato,
poiché sono inseriti nella storia personale di ogni assistito. Dei segnali si offre una scelta ricca
fotografica, eppure minima, se paragonata alle decine di migliaia di carte da gioco, di nastri, di
monete, di oggetti d’uso, di biglietti, conservati nell’archivio milanese. Gli oggetti sono stati
fotografati, analizzati e studiati nella seconda parte del volume. Anche in questo caso lo scopo non è
quello di suscitare la curiosità dei lettori. I segnali infatti avevano un preciso significato all’interno
della relazione comunicativa fra l’ente assistenziale e i genitori. Gli adulti scrivevano a stento,
talvolta erano coadiuvati dai parroci e dalle levatrici; più raramente – e a volte con sorprendente
efficacia - padroneggiavano con sicurezza la scrittura, lasciandoci talvolta racconti e testimonianze
di profonda umanità, alcune delle quali sono riprodotte nel libro. Anche la varietà degli oggetti è
grandissima, eppure comprensibile, perché, come per i biglietti scritti, ruota intorno alle due
principali funzioni dei segnali: il desiderio di protezione e la conservazione dell’identità e dei
legami, conservazione che passava anche attraverso la scelta dei nomi, studiati nel saggio di Elena
Puccinelli. Ma il percorso non si ferma qui. Grazie alla storia dell’arte (nel saggio di Alessia
Alberti), alla numismatica (nel saggio di Novella Vismara), alla storia della cultura materiale (nel
saggio di Enrico Riva), questi oggetti vengono ricondotti anche alla loro funzione originaria. E’ così
possibile ricostruire non solo i modesti aspetti della vita quotidiana e della devozione popolare di un
tempo lontano, ma anche datare e ripercorrere i circuiti di diffusione delle monete, delle immagini
sacre e di quelle profane.
Dunque – per riprendere ancora una volta quello che ormai è diventato il motto di questa
pubblicazione - non solo un libro sulla storia di Milano, ma un libro sulla storia dei milanesi.
Flores Reggiani
Cuggiono, Villa Annoni - Domenica 15 giugno 2003, ore 10,30
Presentazione del libro:
di Hall Marie Ets
E' la appassionata biografia di una Cuggionese emigrata in America nel 1884.
Un testo importante, noto tra gli studiosi di storia e nel movimento femminile americano, fin'ora del tutto sconosciuto da noi, oggi finalmente tradotto in Italiano da un gruppo di Cuggionesi.
Un libro che attraverso la vita di "Rosa" parla di noi, della nostra storia, della vita nei nostri paesi a fine ottocento e della grande migrazione verso il nuovo mondo.
Un libro che tutti dovremmo leggere.
Lo presenterà la scrittrice Maddalena Tirabassi, vicepresidente della Fondazione Agnelli di Torino.
Domenica aspettiamo anche te. Passa parola.
Ecoistituto della Valle del Ticino. 6 giugno 2003