Il difficile percorso dell’integrazione delle Little Italies nordamericane. 

Il conflitto generazionale. *

 

di Gary R. Mormino (*)

 

Premessa

 

"Primi per le scarpe, primi per le sbronze e ultimi nel campionato", così cGary R. Morminoantavano non molti anni fa i sostenitori di St. Louis. Ma il XX secolo ha lasciato la Gateway City alla linea di partenza. Oggi St. Louis non primeggia più per le scarpe (importa pantofole da Roma), né per la birra (superata dalla nuova arrivata Milwakee) e gli amati Browns se ne sono andati, indifferenti, verso l'erba più verde del campo di Baltimora. La gente, poi, ha seguito l'esempio dei giocatori: nel decennio 1960-70, la popolazione della città è diminuita del 17 per cento.

Ma ci fu un tempo in cui St. Louis era al centro della ribalta urbana, magnati tedeschi della birra consideravano con scherno i birrai di Milwakee e le navi affollavano i moli brulicanti di traffico. L'eredità della frontiera, la cultura dei battellieri del fiume e i bei dintorni fa­cevano alla Gateway City "un misto di puzza di pesce e di splendo­re" [1] .

St. Louis era in pieno sviluppo già da mezzo secolo quando nel 1804 i dragoni americani arrivarono per prendere possesso del monu­mentale acquisto fatto da Jefferson. Nel 1850, dai dati di censimento, risultava che St. Louis era la più cosmopolita delle città americane: quasi il 60 per cento degli abitanti, infatti, era straniero, e, come la Gallia, la città si divideva in tre parti: tedesca, irlandese e africana. Ma già nel 1904, quando St. Louis ospitò la Fiera mondiale, magiari, slavi, latini ed ebrei aveDr. Ernesto R. Milani - Ecoistituto della Valle del Ticino, uno degli organizzatori del convegno , ha curato la traduzione simultanea in italiano dell'intervento del prof. Mormino  vano spinto via celti e tedeschi. La città era anche diventata, per dimensione, il quarto centro del paese e contava numerose enclaves etniche. I marciapiedi della Little Italy e il ghetto, situati sul fiume, attiravano giornalisti e bohémiens; ma lontano dai mercati all'aperto e dalle affollate case in affitto, esisteva un'altra colonia italiana destinata a diventare una delle più importanti d'America [2]

La zona scelta dagli italiani, a sud ovest di St. Louis, era già stata testimone, in appena un secolo, di molti avvenimenti. Le alture situate lungo il fiume Des_Peres, originariamente possedute dal nobile francese Charles Gratiot, furono vendute verso il 1830 a Salomon Sublette, il famoso esploratore e cacciatore di pellicce. A sua volta, Sublette si stancò delle pelli di castoro e vendette la terra ad un inglese che ribattezzò la zona Cheltenham, in onore delle famose sorgenti termali britanniche. Nel 1850 a Cheltenham approdò un gruppo di comunisti francesi - si trattava di coloni riuniti sotto la rossa bandiera di Etienne Cabet - che cercarono rifugio nella zona dopo alcuni sfortunati tentativi utopistici nel Texas e nell'Illinois.

Lo sviluppo economico di Celtenham fu favorito dalla posizione geografica della zona [3] . Formazioni glaciali e paleozoiche avevano creato a sud ovest di St. Louis preziosi depositi di caolino e di argilla friabile. Il filone di Cheltenham fu scoperto verso il 1850 da un operaio inglese che, scavando un pozzo, si imbatté in una vena dalle caratteristiche simili a quelle famose di Stourbridge in Inghilterra. La continua richiesta di materiali da costruzione per il mercato urbano americano portò ad una rapida espansione delle attività produttive, e, nel 1852, vi veniva costruita una stazione terminale della Missouri Pacific Railroad [4] .

Nonostante un geologo esperto avesse segnalato l'opportunità di impiegare l'argilla di Cheltenham per produrre ceramiche di ottima qualità, i capitalisti locali preferirono utilizzarla per condutture e mattoni favorendo cosi l'arrivo di migliaia di operai non qualificati al posto di maestri artigiani. Di conseguenza, gli aristocratici francesi, i cacciatori di pellicce, i comunisti utopisti di Icaria, i minatori tedeschi e i conducenti di muli furono, via via, sostituiti da immigrati lombardi e siciliani. Oggi, le cave vengono usate come scarichi per i rifiuti ed anche la manodopera delle fornaci non è più quella di un tempo, ma gli ultimi abitanti di Cheltenham italo-americani della terza e quarta generazione, hanno rifiutato di lasciare il quartiere.

 

 

I primi insediamenti di immigrati a Cheltenham

 

Nel 1882, alcuni pionieri, originari di un villaggio della Lombardia, raggiunsero l'America diretti alle miniere di piombo del Missouri; ma trovarono più vantaggioso approdare" alle fabbriche di mattoni e alle cave di argilla di St Louis. Gli abitanti originari, sparsi attorno all’avamposto di Cheltenham, non accolsero certo con entusiasmo i nuovi venuti.  Hugo  Schoessel, descrisse i contatti iniziali con gli italiani: "Avevo circa cinque anni quando arrivarono i primi italiani [...]; erano una mezza dozzina di uomini, [...] i tedeschi che erano qui li trattava­no male [...]. Ricordo, che di sera, gli italiani suonavano la fisarmonica [...] e noi bambini ci aggrappavamo alla palizzata per ascoltarli. E poi, dopo  un po', fecero venire i loro  amici, i parenti [...] è così che cominciarono!" [5] .

Gli immigrati vedevano in Cheltenham qualcosa di più che un sem­plice insieme di fabbriche e di cave: fra il 1890 e il 1900, diverse centinaia di lombardi e un piccolo gruppo di siciliani crearono una colonia stabile, già denominata dagli indiani ed in termini dispregiativi "Dago hill", e la chiamarono la Collina. Sarebbe troppo facile cadere nel sentimentalismo descrivendo le condizioni di vita degli immigrati: è sufficiente ricordare che una indagine del 1888 sulla situazione dei lavoratori italiani rilevava la presenza di dieci cadenti baracche di le­gno, che ospitavano diverse dozzine di operai e tre donne. "Tomasso vive molto frugalmente — scriveva un giornalista nel 1907, a proposito di uno di questi primi pionieri — mortadella, aglio e pane nero costituiscono il suo pranzo e la sua cena" [6] . Il cronista riferiva anche che lo stesso, in 25 anni, non aveva perso un solo giorno di lavoro nella cava. La prima ondata di immigrati era composta, in massima parte, da giovani come Tomasso, che per risparmiare, si organizzavano in cooperative. In baracche costituite in qualche modo vivevano, gomito a gomito, sino a dieci uomini ed era comune che occupassero la stessa stanza secondo turni di 12 ore, mentre le cure domestiche erano affidate ad alcune donne che lavoravano incessantemente. Questi pionieri forgiaro­no il primo anello della grande catena di migrazioni che diede vita al più grosso insediamento di lombardi fuori dalla loro terra di origine [7] . Altri lombardi (di Cuggiono, e dei paesi vicini di Inveruno, Malvaglio, Robecchetto, Marcallo e Ossona) furono attirati verso il nuovo mondo per sfuggire alle disastrose condizioni dell'agricoltura.

Le notizie provenienti da St. Louis portavano a casa, irresistibili, le promesse dell'America. "Qui mangio carne tre volte al giorno, non tre volte all'anno! " scriveva Alessandro Ronciglio, un fabbro già disoccu­pato che partì per il nuovo mondo con la speranza di rimettere in sesto la sua bottega e poi tornarsene a casa. Ma egli non fu certo un uccello di passo come testimonia una sua lettera alla moglie. "Non ho più intenzione di tornare" e aggiungeva alcune laconiche istruzioni: "Voglio che tu prenda Tony con te e che veniate alla Collina. C'è abbondanza, anzi molto lavoro, e io, vorrei vivere qui [...] se non verrete, io non tornerò". [8]

Una diffusa "vocazione" per l'America aveva sconvolto le acque stagnanti di Cuggiono. Il clima si impregnava di ottimismo durante i racconti delle favolose ricchezze che si potevano accumulare su una piccola montagna del Missouri; e la soluzione era una sola: emigrare. Il fenomeno si presentava di forma economica e colpiva villaggi e regioni con intensità diversa. Nel 1882 Cuggiono contava 6105 abitanti, con un aumento di 1138 rispetto al censimento del 1862; nel 1931, la popolazione era scesa a 4475 unità, con un decremento del 25 per cento pur in un periodo di alta natalità. [9]

"Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia ma non quel che trova", così un vecchio proverbio italiano ammoniva i futuri emigrati. Ma questo non valeva per i cuggionesi. I legami di parentela con il vecchio mondo non solo sopravvivevano ma anzi si rafforzavano dopo il trapianto transoceanico. I paesani avevano bisogno di consigli, di incoraggiamenti, di denaro per il viaggio e di "Beatrici" che facessero da guida durante il periglioso tragitto. I nuovi venuti, all'inizio del secolo, non erano degli sconosciuti e quindi si inserivano rapidamente nella vita della colonia. Al momento dell'arrivo, essi cercavano lavoro, casa e protezione. Ma soprattutto, i 3000 trapiantati sulla Collina si battevano per pane e lavoro.

Era facile far credere ad emigrati disperati che le strade del nuovo mondo erano pavimentate d'oro, ma, appena sbarcati ad Ellis Island, essi apprendevano subito tre amare verità: che le strade non erano coperte d'oro; che erano addirittura da pavimentare e che, appunto, questo sarebbe stato il loro compito. Gli italiani che arrivavano alla Collina imparavano poi una quarta lezione: ci si aspettava anche che essi scavassero l'argilla e facessero i mattoni per pavimentare le strade di un paese che cresceva a ritmo frenetico.

 

 

La formazione della comunità italiana a "Dago Hill"

 

A Cheltenham dall'inizio del secolo fino agli anni della grande crisi l'economia locale era imperniata sulle cave e sulle fabbriche e, in alcu­ne di esse, i lombardi e i siciliani erano impegnati in quasi tutti i lavori più mal pagati.

A mano a mano che si esaurivano i preziosi depositi di argilla, altre industrie che trascinavano con sé nuove attività garantivano l'espansio­ne produttiva della zona: dopo il 1910 si possono contare diverse industrie leggere e pesanti, tra cui Carondolet Foundry, la Banner Iron Works, la Quick Meal Stove Company, la McQuay-Norris Company e la National Bearing Metals Corporation [10] . Se i capitalisti trovavano vantaggi a localizzare le loro attività nei pressi della Collina, agli operai immigrati derivavano ben pochi benefici. Nel 1912 un operaio non qualificato guadagnava ancora un dollaro e mezzo per dieci ore di lavoro, il che portava un osservatore di fatti sociali a dichiarare che tale area era una delle peggiori fra le zone industriali di St. Louis. Nel 1917 gli addetti alle fabbriche di mattoni della Collina continuavano a lavorare 10 ore al giorno per soli due dollari e dieci, mentre in altre parti della città quelli aderenti al sindacato percepivano da 3,25 a 4,50 dollari per sole 8 ore di lavoro. [11]

I cronisti dei giornali locali definivano "Dago Hill" "provinciale" "vecchia Europa", e "paesana", ma nessun aggettivo dava il senso del quartiere meglio di "operaio". Dal 1900 fino alla seconda guerra mon­diale, l'enclave restò il distretto più tipicamente operaio dell'intera città. Gli italo-americani svolgevano in misura massiccia le mansioni più basse e gli addetti classificati come "non specializzati" erano quattro volte superiori (35 per cento) che nel resto della città (9 per cento). Nel 1934 soltanto sei italiani della comunità (0,05 per cento) erano professionisti [12] .

Uno dei paradossi più crudeli della storia italo-americana è probabilmente il fatto che proprio la forza e la coesione del ghetto etnico costituirono ostacoli insormontabili nel raggiungere occupazioni più elevate. Il sociologo Raymond Breton ha ipotizzato che esiste una correlazione inversa fra la coesione di una comunità etnica e la mobilità verticale dei suoi membri. Maggiore è il grado con cui una organizzazione etnica sopperisce ai bisogni sociali dei suoi membri — sostiene il paradigma di Breton —, minori sono il bisogno e l'opportunità di mobilità territoriale ed economica [13] .

In principio lombardi e siciliani affondarono radici sane e profonde nel suolo della Collina. Il quartiere offriva limitate occasioni di lavoro, ma la colonia si trasformò in una comunità e continuò ad offrire ai residenti il senso della continuità quanto a linguaggio, eredità, culturale, residenza, divertimento, aiuto reciproco, modi di comportamento e, aspetto anche più importante, prospettive future. Ma che cosa costituisce una comunità? L'evoluzione della Collina dal 1890 al 1925, nel periodo che fu testimone del drammatico passaggio da semplice cava a comunità, avvenne grazie ad una serie di fattori, nessuno dei quali tuttavia spiega interamente il successo del gruppo etnico; anche se è chiaro che la crescita continua, ma limitata, dell'enclave, le relazioni urbano-geografiche e la notevole omogeneità rafforzarono le caratteristiche strutturali della comunità.

L'influenza di coloro che si stabilirono dopo il 1900 modificò molto la fisionomia sociale della Collina. Il censimento del 1907 della parrocchia di Sant'Ambrogio mise in evidenza che la comunità di 3145 persone era ad un bivio. L'enclave, un tempo dominata dai lombardi, stava diventando velocemente asilo di siciliani. Benché gli italiani del nord fossero ancora più numerosi dei loro fratelli del sud (nella proporzione di due ad uno), essi dovettero affrontare una strenua concorrenza linguistica da parte di questi ultimi, favoriti dalla mancanza di controllo delle nascite e dal continuo afflusso di nuovi arrivati, che contribuiro­no ad ingrandire la colonia. Secondo il censimento del 1920, 2651 erano gli italiani nati in Italia e 1410 gli appartenenti alla seconda generazione; dieci anni dopo gli italiani della prima generazione erano scesi a 2264, ma i loro discendenti erano saliti a 2983 . [14]

Per quanto la collettività della Collina fosse più ricca e popolosa nel 1930 che agli inizi del secolo, i suoi valori fondamentali - indipendenza culturale, isolamento, geografico ed omogeneità etnica — non cambiarono. La colonia si definiva orgogliosamente little Italy, un'isola a sé stante. La mancanza di trasporti e di comunicazioni rafforzò l'isolamento, dato che la colonia fu collegata con un servizio urbano di autobus e di tram soltanto fra il 1920 e il 1930. La corsa in autobus a Sportsman Park ampliava le prospettive sociali di un Joe Garagiola, ma i suoi genitori si tenevano strettamente attaccati agli originali confini geografici: "La città - ricordava l'ex atleta, commentatore radiofonico e scrittore — per quanto ne sapevano i padri e le madri della Collina, era il luogo dove si andava a sostenere l'esame per avere la cittadinan­za; altrimenti era lontana quanto il Duomo di Milano" [15]

Il quartiere non si era neppure "sintonizzato" con l'America moder­na: nel 1930, circa il 50 per cento delle famiglie dell'area metropolita­na di St. Louis possedeva la radio, ma sulla Collina soltanto il 18 per cento degli abitanti si era adeguato a tale spinta consumistica [16] . Un solo giornale italiano, "Il Pensiero", era sopravvissuto alle vicissitudini editoriali e gli si poteva attribuire, tutt'al più, una influenza marginale. Ci si deve ricordare che, ancora nel 1930, il 35 per cento dei nati in Italia della collina era ufficialmente classificato come analfabeta. Inoltre, alla vigilia di Pearl Harbour, soltanto undici residenti potevano vantare un diploma di scuola superiore su una popolazione totale di sesso maschile di 1600 individui [17] . L'omogeneità etnica e la fortu­nata posizione geografica caratterizzavano la Collina.

La migrazione verso la comunità avveniva per famiglie e più del 90 per cento dei residenti proveniva da un numero limitato di paesi o città della Sicilia e della Lombardia. Non c'erano estranei sulla Collina. Fra il  1900 e il 1930, ben 32 isolati - circondati da fabbriche ed autostrade e costruzioni - furono costruiti ed abitati soltanto da italia­ni. Ogni fonte di informazioni reperibile - censimenti federali, guide della città, liste elettorali — confermano senza possibilità di dubbio che la zona era abitata esclusivamente da italiani [18] . "La Collina è un quartiere esclusivamente italiano", dichiarava ad uno scrittore Lawrence, "Yogi Berra ", l'unica eccezione che riesco a ricordare era una famiglia tedesca che viveva nel nostro isolato [19] .

Essa da un secolo vive in un clima culturale italiano, ma gli idranti,  anti-incendio verniciati di bianco, rosso e verde danno soltanto una immagine superficiale della comunità: il cuore della Collina è nelle sue istituzioni e fu attraverso di esse che l'ambito del clan, del piccolo centro ed anche della regione vennero progressivamente valicati per soddisfare le richieste e i bisogni di una società pluralistica e urbana. La comunità, tuttavia, sopravvisse.

Nei decenni turbolenti successivi al New Deal, il quartiere americano subì gravi danni; risucchiato dai sobborghi e divorato dalla ristruttura­zione urbana, rimasero i ghetti a butterare il paesaggio. In contrasto con l'estinzione dei quartieri dello stesso tipo, come ad esempio Valley a Chicago o West End a Boston, la Collina emerge come una comunità modello, unita, ben difesa e disposta a lottare nella città. Nel suo capolavoro ormai neoclassico in 12 volumi, A Study of History, Ar­nold Toynbee afferma che imperi, civiltà e quindi anche quartieri di immigrati, crescono o spariscono, fioriscono o decadono, a seconda della adeguatezza delle loro risposte alle grandi sfide.

In una visione storica, si può forse dire che quattro organizzazioni impressero la spinta alla comunità e le forniscono una guida: le associazioni di mutuo soccorso, i circoli sportivi, il partito democratico e la parrocchia.

 

 

Le associazioni di mutuo soccorso

 

Gli immigrati arrivarono a St. Louis non come italiani, ma come cuggionesi o catanesi. I vincoli con il comune d'origine valevano molto di più dei deboli legami del nazionalismo. Costretti ad affrontare un ambiente urbano competitivo, i legami paesani vennero velocemente superati dalla alleanze regionali: cuggionesi e catanesi divennero lom­bardi e siciliani per necessità

Nei primi anni, l'etnocentrismo si fece sentire sulla Collina più o meno come nel vecchio paese. "I toscani — sussurrava Rosa Casettari ad un amica — non sono bravi come i lombardi, ma sono meglio dei siciliani. Non dovrei dirlo ma la Lombardia è l'ultimo posto del mondo dove si farebbero delle cose malfatte". Sam Russo ricordava le sue prime esperienze in fatto di contrasti razziali nel quartiere; emigrato da Catania, egli trovò lavoro in una fabbrica di laterizi. "I lombardi tratta­no i siciliani da pidocchiosi, ci odiano, non ci possono soffrire. Questa gente ci chiama sempre terre bruciate! Venite da terre bruciate, ci dicono, i siciliani sono dei poco di buono, la Mano nera" [20]

Gli immigrati come Russo, consapevoli di queste faziosità e rivalità etniche, per fronteggiare i nuovi bisogni organizzarono un certo numero di associazioni di mutuo soccorso. I lombardi si raccolsero intorno alla Associazione Nord-Italia-America (anglicizzata in North Italy America Club-Niac). Fondata nel 1897, questa istituzione fu il perno della vita sociale della comunità durante i decenni cruciali che vanno dal 1890 al 1920. Indicativa delle capacità organizzative del Niac fu la creazione della Mercantile Nord Italia-America, un mercato cooperativo di carne, alimentari e articoli casalinghi. Anche i siciliani, pur senza mostrare la stessa tendenza all'associazione, diedero vita ad alcune associazioni semi-volontarie. Sia lombardi che siciliani offrivano ai paesani sicurezza e protezione attraverso le loro istituzioni comunitarie. Terrorizzati dall'idea di essere esiliati nei cronicari o sepolti e dimenticati a Potter's Field, i membri del clan avevano la garanzia di assistenza in caso di malattia e la sicurezza di un funerale dignitoso [21] .

Durante questo periodo, le associazioni di mutuo soccorso aiutarono i soci ad affrontare il nuovo ambiente, funzionando come vere e pro­prie agenzie assistenziali private. Ma, nel 1925, tutto questo era arriva­to ad un punto cruciale. Molti immigrati della prima generazione erano morti e stava maturando una nuova generazione, più americana che italiana, e più italiana che lombarda o siciliana. Ai giovani la Associa­zione Nord Italia-America o la Megara Augusta, offrivano soluzioni inadeguate per quanto riguardava sia il lavoro che lo svago. La diminu­zione degli iscritti, la mancanza di fondi e la depressione contribuirono tutte ad indebolire il ruolo delle associazioni di mutuo soccorso, che si trovarono a fronteggiare anche il proliferare delle società di assicurazio­ne private. Il Niac, ad esempio, scese da 1400 membri nel 1913 a 475 nel 1927 [22] .

I matrimoni costituiscono un segnale anche più chiaro. Prima del 1925 un matrimonio siculo-lombardo avrebbe scatenato una autentica guerra all'interno della comunità; mentre negli anni fra il 1920 e il 1930 quel rubicone nuziale veniva attraversato senza colpo ferire. "Oggi, lombardi e siciliani si capiscono molto meglio", scriveva Giovanni Schiavo nel 1929, "i loro figli si sposano e l'armonia sembra aver vinto" [23] . Istituzioni nuove o rinnovate attraevano i giovani della seconda generazione.

 

 

La parrocchia    

             

Oggi ai visitatori della Collina non può sfuggire la onnipresenza della chiesa parrocchiale: dal punto di vista delle dimensioni, l'edificio di St. Ambrose fa sembrare piccole le strane case operaie dell'Arca di Noè; da un punto di vista politico e sociale, la chiesa ha più potere sul quartiere di quanto Saul Alinsky abbia mai immaginato. Ma il potere deve essere continuamente coltivato, e St. Ambrose acquistò autorità soltanto perché la comunità lo volle, poiché la chiesa era, dopo tutto, soltanto un riflesso dell'immigrato urbano e uno specchio della com­plessità delle forze che si muovevano entro la Collina e la città.

Nel 1903, per colmare il vuoto religioso, monsignor Cesare Spigardi, un religioso originario dell'Italia settentrionale che svolgeva a St. Louis una attività efficace ed attiva, consacrò la parrocchia di St. Ambrose. La scelta di questo santo, primo vescovo di Milano, come patrono della parrocchia, dimostrò l'acutezza politica di Spigardi, ma non bastò tut­tavia a garantire la vitalità della parrocchia. La presenza di parrocchiani poveri o poco praticanti era causa di difficoltà finanziarie e faceva si che mancassero sacerdoti italiani [24] .

L'orientamento religioso della comunità venne messo alla prova nel gennaio 1921, quando il primo edificio di St. Ambrose, che era in legno, fu distrutto dalle fiamme (molti residenti sostengono ancora che prese fuoco un barile di alcool clandestino). La comunità si pose, allora, alcuni interrogativi: St. Ambrose doveva essere ricostruita?  E in caso affermativo, la decisione avrebbe promosso la concordia o la di­scordia fra le fazioni della colonia? E se la chiesa doveva essere riedifi­cata, la cappella, in futuro, avrebbe accolto soltanto vecchi immigrati rugosi con le mani strette intorno al rosario portato dall'Europa e afflitti dalle delusioni del nuovo mondo? O, anche peggio, la parroc­chia sarebbe naufragata sotto le nuove ondate di immigrati, mentre la seconda generazione di italiani si allontanava velocemente dalla Collina.  Lo stesso pomeriggio in cui le fiamme divorarono St. Ambrose, il redattore di "La Lega Italiana" deplorava le scaramucce etniche: "lo spirito di campanilismo sulla Collina è deplorevole"; tuonava il settima­nale. "Se un siciliano si fa avanti con un'idea, i lombardi la rifiuteran­no. Questa discordia e la mancanza di unità sono la nostra rovina e dovremmo combatterle" [25] . Il futuro di Sant'Ambrogio e della colonia erano sospesi in un delicato equilibrio tra la tensione etnica e lo sviluppo istituzionale.

La decisione di riedificare St. Ambrose costituì una pietra miliare nella breve storia della comunità. La sfida non solo di costruire, ma di  costruire qualcosa di bello, galvanizzò la colonia e si impadronì della immaginazione della gente. Il momento era critico.

I primi anni dopo il 1920 ribollivano di mutamenti e furono molti i fattori che influirono sulla decisione di far diventare la chiesa il fulcro della comunità. Il proibizionismo, per esempio, si dimostrò una occasione d'oro per gli intraprendenti italo-americani e grande quantità di denaro, guadagnato con la distillazione clandestina dei liquori, furono purificate dal piatto per la raccolta delle offerte. Il blocco sulle immigrazioni nel 1921 e nel 1924 costrinse la Collina a rivolgere l'attenzione ai problemi interni della comunità e la ricostruzione della chiesa fu resa possibile dall'entusiasmo della generazione più giovane e dall'arrivo di religiosi devoti ed attivi.

Negli anni fra il 1921 e il 1926, i muri portanti di Sant'Ambrogio, in mattoni della rossa argilla locale, che assumeva con la cottura un bellissimo colore, si alzarono verso il cielo. Fu un esempio splendido di ricalco culturale: la basilica del vecchio mondo, dove furono incoronati gli imperatori, era ora qui, nel nuovo mondo, con tutta la purezza della sua architettura romanico-lombarda [26] .

La nuova chiesa rappresentava la volontà del suo popolo, inscindibilmente legata alla Collina. E la chiesa rispose a tutte le aspettative. Nel periodo della grande crisi, Sant'Ambrogio era divenuta il punto di convergenza della comunità, una istituzione, insomma, di enorme influen­za. Nel 1929 Giovanni Schiavo notava: "II centro di tutte le attività [...] è St. Ambrose. Il parroco dirige la maggior parte delle attività in questa zona [...]. Una ricorrenza religiosa, [...] assume l'importanza di   un avvenimento nazionale" [27] .

La chiesa era considerata qualcosa di più di un edificio costato ben 250.000 dollari, in mattoni e vetrate istoriate, più di un santuario; era anche un luogo di assistenza, un centro sociale ed una agenzia di collocamento. "Noi preti eravamo la candela di accensione della comu­nità" ammise il vescovo Charles Koester che resse Sant'Ambrogio dal 1932 al 1940. "Avevamo più contatti con la gente di chiunque altro sulla Collina" [28] .

In occasione della consacrazione dell'edificio, nel 1926, uno dei doni più cospicui ad ornamento della cappella fu una coppia di angeli che sorreggevano un bacile di acqua santa; generoso donatore il Fairmount Democratic Club. Per i Repubblicani della Collina il dono assumeva il significato di un angelo vendicatore. Ma, dopo tutto, chi conosceva meglio le virtù dell'unità ed il valore del compromesso?

 

 

Il Fairmount Democratic Club

 

"Se volete arrivare da. qualche parte, dovete unirvi". Così diceva    Louis Jean Gualdoni, fondatore del Fairmont Democratic Club. Figlio di Carlo Gualdoni arrivato a St. Louis nel 1886, Jean nacque sulla Collina nel 1893. Per la generazione del padre la politica era una seccatura che distraeva dai più urgenti impegni di lavoro; Jean Gualdoni, come del resto i capi spirituali nella chiesa cattolica, si rendeva conto dei cambiamenti intorno agli anni '20 nella colonia e cercò di imbrigliare e guidare quel potenziale.

Jean Gualdoni aveva ricevuto la prima educazione nelle cave; lasciata la scuola a 13 anni per andare a spalare argilla, passò ben presto ad una attività più lucrosa come commesso in una drogheria del North Italy America Club e dopo essere stato per qualche tempo soldato e poi macellaio, nel 1919 tornò alla Collina. Due anni dopo dal leader politico di St. Louis, John Dolan, ottenne la carica piuttosto rischiosa di assistente esattore. Il germe dell'apparato politico della Collina nacque durante quell'incontro. "Jean - consigliò il veterano della politica - crea in quella zona un elettorato italiano e avrai ai tuoi piedi tutti i politicanti democratici. Cercheranno la tua amicizia e il tuo appoggio e faranno per te tutto quello che possono" [29] Gualdoni tenne ben impressa nella mente quella conversazione, durante la sua carriera, du­rata tre anni, come agente del proibizionismo. Molti residenti del luogo hanno fatto accenni, e il fatto non è mai stato smentito, che Jean era noto per la sua tolleranza durante i giri di perlustrazione alla ricerca di distillerie sulla Collina. Nel 1923 rifiutò di trasferirsi a Minneapolis, lasciò il lavoro e un anno dopo cominciò a convogliare i distillatori clandestini verso il possente apparato del partito.

Il Fairmount Democratic Club fu inaugurato nel 1924. L'acuto istinto politico di Gualdoni gli diceva che il futuro politico della Collina di­pendeva dal gran numero di giovani e di donne e dalla potenzialità di quell'elettorato, tanto che egli era per l'organizzazione politica quello che i preti furono per l'apparato religioso e Joe Causino sarebbe stato per le attività sportive. "Jean venne a farci un discorsetto stimolante" ricordava Lou Berra, che nel 1924 aveva 18 anni; "Guardate — ci disse Jean — vi pagherò l'affitto, vi pagherò il carbone, tutto quello che dovete fare è parlare di democratici. Fate qualche cosa. Al tempo delle elezioni, lavorate per il partito democratico" [30] . "Jean — rifletteva Berra — fu il primo democratico". Creò il Fairmount Democratic Club. Credo che tutti quelli della Collina, della mia generazione e anche i più anziani, si siano iscritti prima o poi al Fairmount Democratic Club. Voglio dire, se non eri iscritto c'era qualcosa che non andava. Riuscì a convertire tutto il quartiere".

Anche Lou Cerutti, che fu un membro del club, ricordava: "Jean prendeva i ragazzi come me pensando che dopo pochi anni avrebbero votato. Il circolo era veramente accogliente. Era un posto che teneva lontani dalle strade [...] c'erano due, tre tavoli da biliardo. Ogni sabato sera ci portava alle partite di pallone anche se faceva molto freddo" [31] .

Il calcio appassionava gli italo-americani della Collina più delle di­scussioni sulle riforme tariffarie o il buon governo. Gualdoni lasciava da parte le piattaforme ideologiche ed offriva invece agli elettori, otte­nendone la gratitudine, la politica del favore personale. "Ti dirò una cosa che mi viene dall'esperienza — era solito sussurrare con una strizzatina d'occhio - è nella natura umana che chiunque, italiano o no, vada con il tizio che si presta di più per lui. Così si comportano gli italiani e così mi comporto anch'io Mi sono esposto per aiutare questa gente ed ho anche sborsato denaro di mia tasca! Non ho mai preso un centesimo da nessuno di loro. Però ho preso i loro voti! [..] Ogni volta che ho promesso di fare qualcosa l'ho fatta [..]. Questo è il segreto della mia attività politica". [32]

L'organizzazione politica di Gualdoni si basava sul reclutamento di giovani luogotenenti devoti e pieni di talento. Nel 1925 Gualdoni "arruolò" un giovane operaio che lavorava in una fabbrica di mattoni, Lou Midge Berra, che si dedicò anima e corpo alla politica dal 1926 fino alla morte, avvenuta nel 1964 mentre stava facendo un infocato comizio.

Quando Gualdoni e Berra studiavano insieme la situazione politica pre­sente e futura della Collina, si trovavano ad affrontare un problema che aveva frustrato ogni sforzo precedente per costruire una sezione ben organizzata: finché un numero sufficiente di italo-americani non fosse divenuto maggiorenne, il nucleo elettorale della Collina doveva necessariamente essere costituito da immigrati naturalizzati. Ma, fra il 1906 e il 1920, soltanto 79 avevano chiesto la naturalizzazione [33] ; si pensò, allora, di ingaggiare un impiegato dell'ufficio immigrazione perché tenesse un corso di lezioni per insegnare agli immigrati italiani come ottenere la cittadinanza. Altri divennero cittadini con sistemi meno formali. "Mio padre, come altri, divenne cittadino statunitense — ricordava Roland Di Gregorio - perché studiava le domande e le risposte a memoria, come il Padre Nostro. In altre parole, se voi gli chiedevate: chi fu il primo presidente degli Stati Uniti? egli sapeva solo la risposta a quella domanda, e conosceva la domanda successiva con relativa risposta. Se, come talvolta accadeva, il giudice faceva una domanda e poi saltava una domanda successiva, mio padre sbagliava la risposta. Imparavano le lezioni come preghiere" [34] . E se si presentavano casi di giudici poco comprensivi che non tenevano conto delle particolari circostanze, Berra e Gualdoni accompagnavano personalmente gli esaminandi per fare da testimoni. "Uno dei miei compiti alla Collina era di fornire i documenti per la cittadinanza" - disse "Midge" Berra ad un giornalista nel 1962. "Il governo federale, una volta, indagò su di me perché c'erano 1800 persone con il mio nome sui loro documenti di cittadinanza.  Il governo pensava che io vendessi tali documenti, ma non era vero. Era soltanto parte del servizio che prestavamo" [35] .

I risultati furono subito evidenti. Nel 1940, il 48 per cento degli immigrati della Collina aveva la cittadinanza e l'11 per cento aveva preparato i primi documenti [36] . Il meccanismo era stato così messo in moto. Il Fairmount Democratic Club divenne ben presto una forza con cui i politici di St. Louis dovevano fare i conti. Il giorno delle consultazioni l'elettorato ricompensava ampiamente il partito per i suoi servigi ed il "Globe-Democratic" sosteneva che la Collina si era dimostra­to il distretto elettorale più stabile di St. Louis durante tutto l'ultimo mezzo secolo.

Nel 1950 la Collina contava più iscritti al partito democratico che l'intero stato del New Mexico. "Non è tanto la percentuale quella che conta" dichiarava il leader politico Gualdoni, "quanto piuttosto il fatto che c'è un gruppo compatto, un gruppo che vota tutto insieme. Questo è proprio quello che hanno fatto gli italiani" [37] . Quando Kerry Patch e i blocchi elettorali tradizionali si sciolsero, la stabilità politica, della Collina raggiunse una importanza anche maggiore. Il sindaco Ray­mond Tucker una volta ammise che il sostegno di "Midge" Berra vale­va in una elezione cittadina da 3000 a 4000 voti [38] .

Gli attivisti del distretto non mancavano di ricordare ai residenti che il loro voto significava potere, e come ulteriore allettamento ai demo­cratici più fedeli venivano assegnati con larghezza posti di lavoro ed incarichi. Gualdoni alimentava il clientelismo grazie alla sua posizione di Street Commissioner (1936-41), membro del Comitato di distretto (1936-44), Manager of the Kiel Auditorium (1951-1963). Berra tenne l'incarico di maggiore prestigio nella città dal 1939 al 1962, come esattore.

Molti residenti lodano Berra e Gualdoni per aver utilizzato le loro influenze politiche a vantaggio della economia locale. "Per gli italiani era difficile ottenere lavoro nelle fabbriche della Quick Meals e McQuay-Norris", diceva un postino. "Fino ad allora ci lavoravano so­prattutto tedeschi. Finalmente "Midge" riuscì in qualche modo a rom­pere il ghiaccio, e se tu avevi bisogno di un lavoro, prima e dopo la guerra, lui te lo procurava. Si dava da fare, e trovava lavoro per la sua gente. Ricordo personalmente di essere andato da "Midge" Berra, e lui mi trovò un posto alla Quick Meals dopo la guerra nel '45" [39] .

Mentre il clientelismo ingrassava gli ingranaggi della macchina politi­ca, il servizio personale ne assicurava il funzionamento regolare e per­fetto. La macchina Gualdoni-Berra era basata essenzialmente sulla co­munità. La politica del favore personale non era più retorica di cam­pagna elettorale. "La maggior parte degli uomini politici, una volta eletti, si dimenticano della gente, ma non questi!", affermava Charles Pozza, proprietario di un saloon [40] . Le vicende degli aiuti prestati dalla macchina del partito sono comuni quanto la presenza degli atti­visti nelle imprese di pompe funebri. "Midge lavorava per la politica 24 ore su 24", diceva Paul Berra, un suo amico, attualmente St. Louis City Treasurer," avrebbe fatto qualunque cosa per un membro del suo   distretto elettorale" [41] .

Soprattutto, la macchina politica forniva i servizi di cui gli immigrati avevano bisogno: presenza costante, lavoro, cibo, aiuto per ottenere la cittadinanza; un sostegno contro una burocrazia urbana sconosciuta ed onnipresente, ed i beni intangibili della solidarietà sociale e dell'aiuto reciproco. In senso sia latente che manifesto, la macchina locale del partito faceva andare avanti le cose. "In una comunità come questa, c'è bisogno di qualcuno che controlli la situazione", — spiegava Cateri­na Borghi, 88 anni. "Molti di noi, dei vecchi tempi, non ci si rendeva conto della situazione finché "Midge" e Jean non ce l'hanno spiegata" [42] .

"Engine" Charles Wilson un giorno proclamò che quello che andava bene per la General Motors andava bene anche per gli Stati Uniti; lo stesso si poteva dire per il Fairmount Club e per la Collina. Le istitu­zioni politiche locali, come d'altra parte le organizzazioni ricreative, ecclesiastiche o criminali, rispecchiavano i valori della comunità, ed i trionfi politici erano conquiste condivise da tutta la colonia etnica. "La politica fu un grande fattore unificante per la Collina", diceva il vesco­vo Charles Koester. "C'era un rapporto molto stretto fra il quartier generale del partito e la chiesa. Di qualunque cosa avesse bisogno la comunità, come lo vedevamo noi preti, bastava parlarne con Jean Gualdoni e "Midge" Berra. Essi stavano con la loro gente" [43] .  La chiesa cattolica aveva stabilito una stretta collaborazione con i   capi del partito per attuare questa politica. "C'era uno scambio costante fra di noi" - ricordava il vescovo Koester, - " direi, senza tema di esagerare, che incontravo "Midge" Berra da 7 a 10 volte alla settimana.

[...]. Erano coinvolti come noi. E preferivano vederci piuttosto che parlare al telefono. Anche per strada. Oppure ci si fermava per vedere cosa stava succedendo. Tutta la vita sulla Collina ruotava attorno ad una serie di incontri e di persone" [44] .

La politica, come la religione, cristallizzò ma allo stesso tempo rinforzò l'idea etnica. Se non fosse stato per il Fairmount Club centinaia di immigrati non sarebbero mai diventati cittadini americani. L'apparato politico procurò anche una occupazione a molti residenti, intro-ducendoli così in un nuovo ambiente di lavoro e in un nuovo contesto sociale. Inoltre il successo politico garantiva la collaborazione, e 50 anni di attività elettorale misero gli italiani della Collina in contatto con le istituzioni locali e statali.

Tuttavia, i  capi del partito erano sempre pronti ad usare il tema etnico per le campagne elettorali. Nel 1938, per esempio, Gualdoni si battè per ribattezzare la Cooper Avenue-Marconi Avenue ed il sindaco  Dickman in persona, amico intimo di Gualdoni, tagliò il nastro durante la cerimonia per la dedica della strada.

 

 

Le associazioni sportive

 

Gli scolari italo-americani, con gli immigrati che si preparavano agli esami per ottenere la cittadinanza, sapevano bene quale era la loro "santa trinità". Pochi degli osservatori locali avrebbero potuto trascura­re la "trinità" organizzativa su cui si imperniava, a partire dal 1930, la vita della comunità: nel momento in cui lombardi e siciliani stavano trasformando la chiesa di Sant'Ambrogio in un centro organizzativo e i democratici della Collina si riunivano sotto l'egida del Fairmount Club, i giovani del quartiere si davano da fare per dare vita ad una lega atletica. Gli storici che trascurano lo sport come argomento serio di studio, farebbero bene a considerare l'importanza a livello locale del tempo libero. Esso costituisce in America un microcosmo; il ruolo che gli individui attribuiscono allo sport può dirci, sulla loro società, quan­to le loro vicende politiche o intellettuali. Proprio come Wellington sosteneva che la battaglia di Waterloo era stata vinta sui campi da gioco di Eton, così la battaglia per conquistare i giovani della Collina fu combattuta sui campi da gioco del quartiere.

I primi tentativi da parte del movimento giovanile della colonia, in questo settore, risalgono al 1920, e l'ostacolo maggiore nella organizzazione della gioventù locale era rappresentato dalla diffusione delle "bande" giovanili; esse, in un certo senso, minacciavano il futuro della colonia. Quelle degli italo-americani non erano certo fenomeni isolati ma rientravano in un più vasto quadro nazionale; ed erano il frutto di molti fattori, come ad esempio la demografia, l'acculturazione, la scuo­la, il proibizionismo e la rivoluzione del tempo libero [45] .

Per quanto riguarda la Collina, l'alto tasso di natalità aumentava il numero dei membri delle bande; nel 1920 si possono contare più di 700 individui maschi fra i 15 e i 30 anni, e nel 1930 ben 1000 [46] . Più importante era il fatto che questi italo-americani della seconda generazione erano dotati di una forte aggressività. Un operatore sociale locale riferiva che i giovani si ribellavano all'autorità paterna e molti, egli notava, "si vergognavano dei loro genitori" [47] .

D'altra parte, la scuola del quartiere, se era un altro settore impor­tante di americanizzazione, ed installava i germi della democrazia, era anche un crogiolo di conflitti sociali ed etnici. Ad esse i genitori italia­ni guardavano con sfiducia e con sospetto. D'altra parte gli italiani, presi dalle necessità crescenti della famiglia e dal desiderio di stabilità economica, potevano contare poco su di una carriera scolastica: "II 14° compleanno significa il certificato di lavoro e l'addio agli studi", si lamentava Ruth Crawford nel 1916 [48] . Poco era cambiato 20 anni dopo, quando le autorità scolastiche si lamentavano che ancora pochi allievi della Collina terminavano l'8a classe e meno ancora la scuola superiore. Gli studenti e gli ex-studenti completavano di solito i loro studi nelle bande.

Ad esempio, i bambini imparavano alla scuola pubblica i rudimenti della geografia, all'esterno ricevevano ben presto le prime lezioni di geografia etnica ed urbana. "Bene, facciamo un po' di geografia", ri­dacchiava Lou Berra: "Kingshghway [...], il torrente [...], i binari della ferrovia [...] quelli erano i nostri confini! Su per la collina avevamo la banda irlandese di Blue Ridge, a nord ovest Cheltenham, composta da una mescolanza di tedeschi oriundi e di nati nel quartiere. A est di Kingshghway, c'era la banda di Tower Grove, quella che molti di noi chiamano Hoosiers [...], poi c'era la Dog Town: prova ad oltrepassare quel confine e ti farai prendere a calci nel sedere" [49] .

Come tutti gli altri adolescenti gli italo-americani della Collina si riunivano nelle loro "società" all'angolo delle strade. "Ogni ragazzino della Collina apparteneva a una banda o a un gruppo — ricordava Joe Garagiola, — o ci stavi o eri tagliato fuori" [50] . Con il nome di Falchi, Falconi, Corvi, piccoli Cesari, e Cervi, le bande proliferarono per tutti gli anni '20 e '30, raggiungendo il culmine nel 1940, quando se ne potevano contare circa 50 con 1000 membri. I giovani italo-ame­ricani della Collina si suddividevano in base a criteri geografici, creando così una specie di campanilismo urbano. "Tutti i ragazzi della mia età che vivevano in Elizabeth Avenue diedero vita ad un circolo sportivo", ricordava Yogi Berra [51] . Cosi la Collina affrontava le minacce interne ed esterne nei primi anni dopo il 1920.

I ragazzi italo-americani che non riuscivano ad integrarsi nella scuola, trovavano fuori delle aule un mondo affascinante ed avventuroso. Il 1920 portò fra le altre cose il proibizionismo e gli italiani, incuranti della legge Volstead, interpretarono quella legge di stampo puritano come un mezzo semplice ed eccitante per aumentare le loro entrate. I distillatori clandestini, proprio come bravi uomini d'affari, utilizzarono una risorsa naturale, la banda, per incrementare gli affari. Poco intimiditi dalla polizia, anzi spesso protetti dagli uomini della legge, i membri delle bande lavoravano in molti modi per i fornitori locali, e soprattutto distillando clandestinamente whiskey a buon mercato o altri liquori. "Giovani e vecchi, erano tutti là a distillare. Si fecero un sacco di soldi in questo quartiere", affermava un vecchio immigrato [52] . "Quale ragazzo avrebbe frequentato la scuola sapendo che c'era a portata di mano un modo così semplice per fare denaro? " si chiedeva un operatore sociale [53] .

Infine, va tenuto conto che la generazione più giovane, negli anni '20, poté anche godere della rivoluzione del tempo libero. I primi immigrati italiani non avevano né il tempo né la voglia di giocare a baseball per la strada o di iscriversi ai circoli sportivi mentre, verso la metà degli anni '20, gli operai delle industrie avevano un giorno e mezzo di riposo alla settimana ed alcuni le vacanze pagate. Inoltre i giovani, a differenza dei loro padri, restavano a scuola più a lungo e cominciavano a lavorare più tardi. Gli operatori sociali, sempre più consapevoli dell'importanza dell'ambiente, cominciarono a preoccuparsi delle attività del tempo libero della gioventù urbana.

Negli sport, come nella vita, esiste un confine molto sottile fra una rivalità sana ed una competitività autodistruttiva e che genera rancori. Lo sport aveva polarizzato i circoli nei primi anni del '20. "Avevamo delle squadre di calcio che nessuno riusciva a battere" — insisteva orgogliosamente Roland Di Gregorio. "Allora", — diceva con voce notevolmente più dimessa, "gareggiavamo fra noi" [54] .

Nel 1926 l'arrivo di Joseph Causino coincise con il completamento della chiesa di Sant'Ambrogio e fu un avvenimento importante per la storia della Collina. Novello padre Flanagan in scarpe da tennis, venne descritto con "la Bibbia in una mano ed il bastone nell'altra" [55] . Entusiasta esponente di un nuovo tipo di operatori sociali, egli accettò la sfida lanciata dai duri della Collina: "ci aiutò a stare alla larga dalla prigione", ammise uno dei molti italiani membri di bande; "avevamo cugini o fratelli maggiori che erano gangsters, e che portavano coltelli ed armi. Ci voleva un tipo come Joe Causino per capire che eravamo destinati a finire male [...]. In quel modo (con lo sport) ci scaricavamo. Ed ecco perché molti vi diranno che per grazia di Dio e dello zio Joe Causino, ne venimmo fuori puliti" [56] . Un ex membro di una banda aggiungeva: "si arrivò, finalmente, al momento in cui il vecchio Joe riuscì a farci stare insieme. Una delle cose che ci tenne uniti fu lo sport" [57] .

Causino aveva visto con i propri occhi le ferite che la guerra delle bande aveva inferto giù in città alla Little Italy ed era ben deciso ad evitare un simile conflitto fratricida ai giovani della Collina. I suoi programmi ricreativi, che si inserivano nel più ampio movimento giovanile nella parrocchia di Sant'Ambrogio, coinvolsero tutti i ragazzi della Colonia, lasciando poco spazio o inclinazione alla devianza. Gli sport riempivano di orgoglio la comunità: così il calcio e il baseball costituirono per la Collina gli antidoti contro la violenza generale della depressione.

La competitività accesa, temperata di spirito comunitario si dimostrò imbattibile sui campi da gioco e la bravura degli atleti della Collina rovesciò l'equilibrio delle forze calcistiche di St. Louis, fino ad allora dominate dal German Sports Club, dalla Spanish Society e dalla Irish Catholic League [58] . Battere gli irlandesi, i tedeschi e gli spagnoli aggiungeva alle rivalità etniche una dimensione nuova, molto più popo­lare e desiderabile che pestare il paesano vicino di casa. Data la tenden­za dei giovani verso la violenza e il crimine, gli incontri di calcio costituivano una forma mitigata di catarsi, era una valvola di sicurezza sociale [59] .

L'attività atletica alla Collina ebbe in meno di 20 anni un impulso notevole. Quando Jean Gualdoni fondò il Fairmount Democratic Club, intorno al 1920, e tentò di organizzare una squadra di calcio, non era riuscito a trovare italiani da far giocare e quindi attrarre gli elettori. Nel 1929, la prima squadra di calcio organizzata dalla Collina aveva vinto il campionato di divisione e nel 1940 quella di Sant'Ambrogio raggiunse il massimo successo vincendo il campionato dilettanti Ozark Missouri. Lo scatenato centrattacco della squadra, Joe Numi, sarebbe tornato dopo la guerra per guidare come allenatore a nuovi trionfi le squadre di calcio locali, potendo contare su giocatori di qualità: la sua squadra, il Sant'Ambrogio, infatti, vinse la Soublette Park Parish School League per undici anni consecutivi, dal 1934 al 1945 [60] .

Lo sport galvanizzò la comunità raggiungendo un risultato che andò ben oltre i luccicanti trofei. La banda era stata la maggiore minaccia alla potenziale stabilità, alla solidarietà ed alla identità della Collina, e, se non fosse riuscita a guarire da questa piaga giovanile, sarebbe diven­tata un cimitero etnico. Il tempo libero organizzato non spazzò via soltanto i sentimenti violenti, ma divenne un veicolo di solidarietà, che trasformava i conflitti tra le fazioni in competizione creativa. Nel 1941 la Collina era ormai divenuta, anche grazie allo sport, una compatta unità etnica. Vecchi e giovani, lombardi e siciliani, baffuti Pete del vecchio mondo e Yogi del nuovo, si identificavano unanimemente con la Collina, con Sant'Ambrogio, con le squadre del quartiere. "Quello che più mi colpì fra i giovani della Collina, sosteneva Fr. Antony Palumbo, prete allenatore di pallone a Sant'Ambrogio fra il 1932 e il 1948, fu che essi erano disposti a fare molti sacrifici per giocare nella squadra [...], essi erano disposti a dare anima e corpo per la Collina" [61] .

Cameratismo ed acceso spirito atletico diedero coesione alla comu­nità e la prepararono ad affrontare l'ultimo nemico: la seconda guerra mondiale. Chi forgiò lo spirito di unione che permise a Dago Hill di sostenere ancora un'altra crisi, fu un giovane prete allenatore di calcio e redattore di un giornale locale la cui testata si richiamava ad un circolo sportivo parrocchiale.

 

 

La seconda guerra mondiale ed il dopoguerra

 

La vita sulla Collina entrò in una nuova era in un freddo pomeriggio di dicembre del 1941. Quella domenica l'America fu colpita al ventre dalla notizia che le forze giapponesi avevano attaccato Pearl Harbour. Sorpresa, incredulità e paura percorsero sinistramente il quartiere un tempo isolato (ed anche Pearl Harbour, era stata un'isola).

La guerra aveva un significato diverso da individuo ad individuo. Per centinaia di migliaia di americani di adozione che vivevano nei ghetti italiani il conflitto determinò la decisione estrema, la scelta definitiva fra il vecchio modo di vita ed il nuovo. Per i 1500 giovani della Collina che potevano essere richiamati, il futuro si presentava incerto. Cosa sarebbe accaduto ad una colonia orbata all'improvviso dei suoi giova­ni? La più grande piaga per una città, diceva Platone ne Le leggi, non era "la fazione ma la confusione". Eccitati, incuriositi, infiammati e forse annoiati dal loro ambiente parrocchiale, gli italo-americani del quartiere si precipitarono a schiere ai centri di raccolta. Per la prima volta nella storia della comunità, gruppi numerosi presero l'autobus Vandeventer, non per Dollar Bay a Famous Barr, ma verso le mete più lontane dei campi di addestramento. In 1100 si arruolarono e 24 non sarebbero tornati mai più [62] .

Poche battaglie furono combattute con più intensità ed orgoglio della campagna sul fronte intero della Collina per vincere la guerra, a differenza di quanto era accaduto nel 1917, quando gli immigrati erano stati costretti con le buone o con le cattive a dare dimostrazioni di americanismo. Forse soprattutto per dimostrare agli amici americani la profonda ostilità verso il regime fascista, la Collina guidò la carica in questo conflitto [63] . Si trattava di qualcosa di più che una battaglia per vincere la guerra, essa era anche e soprattutto una battaglia per la comunità.

Paradossalmente, l'uomo che guidò la campagna sul fronte interno  non era italiano. Charles Koester era un prete di origine tedesca di 24  anni, che nel 1939 frequentava il Collegio americano a Roma quando la conflagrazione europea lo costrinse all'esilio. Nel 1942 gli fu affida­to, come primo incarico, la parrocchia di Sant'Ambrogio. La giovane età di Koester, la sua sincerità e l'ottimo italiano gli conquistarono le simpatie generali e già dalle prime settimane di apostolato sulla Collina ebbe modo di apprezzare "il fantastico entusiasmo dei bambini di scuola", e capì "il bisogno disperato dei soldati di ricevere notizie da casa" [64] . Nacque così il "CrusaderClarion" — un giornale di quartie­re destinato ai combattenti. Creando un giornale locale, Koester, si introdusse nella struttura del potere: il Fairmount Democratic Club finanziò l'impresa, i bambini delle scuole fornirono il loro braccio e tutta l'operazione si svolse nella chiesa di Sant'Ambrogio. La prima edizione del "Crusader Clarion" uscì da un vecchio ciclostile nel novembre del 1942. Nessun giornale fu più richiesto e popolare. "Fu un grande aiuto per i genitori" spiegava Koester che era redattore, "vede­te, molti di essi non sapevano scrivere una lettera [...] o più semplice­mente non erano in grado di fornire le notizie come potevamo farlo noi" [65] . Non ci si curava di questioni di bilancio, e le copie erano inviate gratuitamente al fronte. I soldati, soli e pieni di nostalgia per le cose "che non avevano", furono particolarmente toccati da questa ini­ziativa. "Mentre leggevo il giornale mi sentivo invadere dalla felicità", diceva Charlie Ferrario ricordando il momento in cui ricevette il primo numero [66] . Il giornale creava un senso di continuità. "Quel giornale ci tenne realmente uniti" rifletteva un soldato, "era come una lettera da un caro amico. Su quel foglio c'erano nomi, lettere, ognuno sapeva dove erano e cosa stavano facendo i suoi amici..." [67] .

Quando i ragazzi alla fine tornarono, essi furono festeggiati da tutta la comunità e quello fu il giorno più felice nella storia della colonia. Ma i ricordi delle battaglie di Bulge o della New Caledonia si offuscaro­no rapidamente via via che si percepiva la vastità dei problemi posti dal dopoguerra. Il futuro stesso della colonia stava nella sua capacità di dare una risposta adeguata ai problemi creati dalla guerra, dagli stessi indirizzi della politica governativa posti dai giovani. Se la guerra aveva ampliato gli orizzonti sociali della Collina, mise bene in evidenza anche una intensa forza di reintegrazione che diede coesione alla comunità [68]

"Fu un grande momento qui sulla Collina", ricordava nel 1945 il vescovo Koester, riflettendo sui temi locali. "Non c'è nessun dubbio. Erano avvenimenti eccitanti [...] specialmente la carica di entusiasmo e l'unità che si erano creati fra quella gente. Una unità così forte, così sana. Fu proprio un grande momento..." [69] . I leaders locali cercaro­no di convogliare questo fervore verso attività a sfondo sociale che attraessero i giovani italo-americani. Ad esempio, nel 1949 fu costruita la scuola Sant'Ambrogio, espressione del bisogno, a lungo sentito, di soddisfare le necessità di istruzione della colonia [70] . La scuola diven­ne subito un problema centrale per i genitori della Collina, per gli studenti e gli ex-studenti, da quando la legge a favore dei congedati aveva permesso a molti di completare o migliorare la propria istruzio­ne. Non è un caso che nel distretto il numero dei professionisti maschi fosse aumentato in maniera impressionante nel dopoguerra: nel venten­nio 1940-60, infatti, la percentuale di professionisti e dirigenti passò dall'1 al 16 per cento [71] . Il miglioramento del livello di istruzione della comunità si rivelò una battaglia più facile di quella combattuta per risolvere la questione dell'abitazione, termine di riferimento impor­tantissimo per capire le reali condizioni del quartiere. Nel 1900 dai dati di censimento nessun italiano risultava proprietario dell'alloggio in cui abitava. Ma se durante il periodo di formazione, dal 1890 al 1920, il quartiere costituiva una vera offesa a causa delle fogne a cielo aperto e delle squallide baracche, tale rovina evocava la desolazione della spe­ranza, non della rassegnazione. Alla vigilia di Pearl Harbour, il 53 per cento delle case sulla Collina era occupato in proprietà, una percentua­le doppia rispetto a quella del resto della città di St. Louis, la più alta in rapporto a tutti gli altri gruppi etnici della città e pari o inferiore a poche nel resto degli Stati Uniti [72] .

Ma tale primato mascherava la gravità dei problemi che i reduci dovettero affrontare nel 1945 al loro ritorno. Sovraffollate e vecchie, nei casi peggiori, pulite e dignitose nei migliori, le abitazioni, soprattutto la loro penuria, furono occasione di serie difficoltà nel dopoguerra. Tre quarti o quasi degli alloggi era stato costruito prima del 1919 e solo il 66 per cento aveva un gabinetto a sciacquone e un bagno [73] .

La generazione più vecchia si era fatta un vanto della propria capa­cità di risolvere i problemi senza ricorrere all'aiuto di un governo assen­teista. "Sono ora convinto che ciò che dava una impronta particolare a questo insediamento era il senso di un comune destino presente nella maggior parte delle famiglie della Collina", rifletteva Elmer Shorb Wood, un operatore sociale della zona negli anni intorno al 1930.

"O forse ciò che contava di più era il profondo sentimento che permeava tale scopo comune. A causa di diverse ragioni e di fatti particolari, nei primi anni dopo il 1930 era difficile trovare un abitante della Collina che non sostenesse la causa comune e si battesse per crearsi una patria, una patria italo-americana, e tenersela ben cara in questo paese di adozione" [74] .

Ma dal 1945 le istituzioni del New Deal e Fair Deal non asseconda­rono certo gli sforzi del vecchio quartiere per mettersi al passo con i sobborghi più recenti, scoraggiando la ristrutturazione delle case più vecchie a favore dell'acquisto di nuove [75] . La via ad una America fatta di tante Los Angeles era pavimentata anche di molti miti : la "cultura" dell'automobile, la costruzione di nuove arterie (spesso trac­ciate attraverso i quartieri degli immigrati) e la mobilità del lavoro. La Collina resistette ben salda a questi pericoli e la comunità si conservò unita continuando il proprio processo di autocostruzione. Gli edifici di mattoni erano diventati l'emblema di coloro che erano giunti in Ameri­ca per lavorare nelle fornaci, e una facciata sempre in mattoni del dopoguerra può essere presa come il sigillo dell'avvenire del quartiere.

La Collina, negli anni che seguirono al conflitto, fu testimone non solo di una ristrutturazione ma anche di una espansione verso i quar­tieri confinanti. Nel 1950, l'area a sud-ovest della colonia, nota come Blue Ridge Heights, divenne sempre più una appendice della Collina via via che le famiglie italo-americane vi si trasferirono; essa non era più  un ghetto chiuso in se stesso, ma una colonia in piena espansione.

L'arcidiocesi cattolica assegnò due dei pastori più popolari di Sant' Ambrogio, padre Koester e padre Palumbo, a due parrocchie contigue ed è indicativo di questi cambiamenti urbanistici e demografici il fatto che nel 1955 la chiesa locale fu trasformata da parrocchia della collet­tività italiana a parrocchia diocesana regolare.

Attorno al 1920, Sant'Ambrogio aveva orchestrato un movimento inten­so fra i giovani della parrocchia e le sue squadre atletiche avevano conquistato importanti vittorie fin dagli anni della grande crisi, ma nessuna si segnala di più di quella raggiunta nel risorgimento post-bellico. "Non è tutto spaghetti, macaroni e vino buono sulla Collina, il famoso quartiere a sud-ovest di St.Louis" scriveva un giornalista nel 1949. "La principale occupazione è lo sport e il più importante pro­dotto di esportazione sono i famosi atleti. Molti pensano che si pratichi solo il baseball a causa di Berra, Garagiola e Restelli, ma quasi tutti gli sport hanno prodotto un numero elevatissimo di campioni" [76] . Nel dopoguerra la Collina diventava la meta non solo di allenatori sportivi in cerca di nuove reclute, ma anche di attivisti della città desiderosi di procurarsi appoggi politici. Per gli italiani, rafforzati dal clientelismo e memori della crisi xenofoba del 1941-'42, il voto diven­ne al tempo stesso un dovere politico ed un impegno patriottico, e niente toccava maggiormente il cuore dell'apparato democratico di un elettorato leale. I maggiorenti della città ripagarono le schiaccianti vit­torie procurate dalla macchina del partito nel decennio successivo alla guerra, e uno dei risultati più tangibili fu la realizzazione del parco Macklind (più tardi ribattezzato Berra). Dal giorno della vittoria, la Collina rappresentò sempre di più la 'grande speranza bianca" e l'unica colonia di St.Louis che riuscisse ad eludere il circolo vizioso della decadenza urbana e della emigrazione verso i sobborghi. Dai censimenti risultava che la Collina ospitava la più alta percentuale di immigrati della città. Anche se i mandolini e le arie alla Caruso hanno lasciato il passo ai dischi di Sinatra ed alla televisione, sono pochi coloro che non si rendono conto che la comunità è italiana. "Il modo migliore per descrivere la Collina è chiamarla un villaggio"  -ebbe modo di dire un giornalista - "un paese italiano separato dal resto della città" [77]

 

 

 


* Riproduciamo, ringraziando la redazione per il permesso accordatoci, il saggio di Gary R. Mormino “La collina sulla città: evoluzione di una comunità Italo-americana a St. Louis” pubblicato su Storia Urbana del luglio-settembre 1981, che rispecchia, in forma articolata ed approfondita, l’intervento dello studioso americano pronunciato nel corso del Convegno.

© Franco Angeli editore Viale Monza 106 - Milano

(*) Docente di storia contemporanea alla South Florida University - Tampa

[1] Ernest Kirschten, Catfish and Crystal, Gardeon City, Doubleday, 1965.

[2] "Star" di St.Louis, 21 genn.  1912; "Republic" di St. Louis 20 mag. 1905; "Post-Dispatch" di St. Louis, 18 mag. 1912; "Globe Democratic" di St. Louis, 7 ott.  1900. Ci si riferirà in seguito a questi giornali chiamandoli semplicemente: "Star", "Republic", "Post-Dispatch", e "Globe-Democratic".

[3] George Brooks, Some news of Old Cheltenham, in "Missouri Historical So­ciety Bulletin", XXII, ott.  1965, pp.  32-35; Lewis Thomas,  The Sequence of Aerial occupation, in a Section of St. Louis, "Annals of the Association of Ameri­can Geographers, XXI, mar.   1931, pp. 75-90; Doris Black e H. Roger Grant, French Ocarinas in St. Louis", "Missouri Historical Society Bulletin", XXX, ott. 1973, pp. 3-28.

[4] Henry Reis e Henry Leighton, History of the Clayworking Industry in the United States, New York, John Wiley and Sons, 1909; Esther Louise Aschemeyer, The  Urban geography of the Clay Product Industry of metropolitan St. Louis, tesi per il Dottorato,   Washington   University,   1943; Brick and  Clay  Records, 1898-1910.

[5] Intervista ad Hugo Schoessel, 10 lug. 1973.

[6] Toilers of the Dark, "Globe-Democratic", 9 giu. 1907.

[7] Lettera di Angelo Sala a Guy Mormino, 18 ago. 1975; "Post-Dispatch", 23 gen. 1898; Frank Thistlewaite, Emigration from Europe Overseas in the XIX and XX centuries, in Population Movements in Modern European History, John McDo­nald, Chain Migration, in "Milbank Memorial Fund Quarterly", n. 42, 1964  pp. 82-97.

[8] Intervista con Antonio Ranciglio, 29 mag. 1975.

[9] Isitituto centrale di statistica, Popolazione residente dei comuni ai censimenti dal 1861 al 1961, Roma, 1961

[10] Thirteenth  Census of the  United States, 1910, voi. IV: Population and Occupational Statistics, Washington D.C., U.S. Government Printing Office, 1914; Aschemeyer, The Urban Geography..., cit-, pp. 50-60; interviste; Grace Keating, A Study of Americanization of the  Italian Immigrants, in that District Known as 'the Hill; Master's Thesis, St. Louis University, 1935.

[11] Twelfth Census of the United States, 1900, Statistics of Occupations, Wa­shington D.C., U.S. Government Printing Office, 1903, pp. 708-709; Federal Cen­sus for Metropolitan St. Louis, St. Louis 1930; "Post-Dispatch", 26 mag. 1901 e 30 apr. 1912; Irvin Crossland, Immigrants in Industry, "St. Louis", Study in Social Economy, 1915, pp. 17-18; Grace Foster, The Hill a Survey, St. Louis Internatio­nal Association, 1934. Le zone  13B e 13C della Collina coincidono esattamente con i confini della colonia, per cui la possibilità di errore è minima.

[12] ibid.

[13] Raymond Breton, Institutional Completeness of Ethnic Communities and the Personal Relations of Immigrants, "American Journal of Sociology", n. 70, 1964, pp. 193-205.

[14]   U.S. Bureau of the Census, Twelfth Census, 1900, National Archives, Wa­shington D.C.; St. Ambrose Archives, chiesa di Sant'Ambrogio; U.S. Bureau of the Census, Fourteenth Census, 1920; Population II; Federl Census for Metropolitan St. Louis, 1930.

[15] Joe Garagiola, Baseball is a funny game, Boston, J.P. Lippincatt, 1960  p. 3.

[16] Federal Census for Metropolitan St. Louis, 1930, pp. 120-121.

[17] Sixteenth Census of the United States, 1940, Population and Housing, voi. VI.

[18] Gould's St. Louis Red-Blue Book, 1900-1940, Liste degli elettori, Municipal Archives, City Hall, St. Louis, Missouri.

[19] Yogi Berra con Ed. Fitzgerald, Yogi, the Autobiography of a Professional Baseball Player, Garden City Doubleday, 1961, p. 33.

[20] Marie Hall Ets, Rosa: the Life of an Italian Immigrant, Minneapolis University of Minnesota Press, 1970, p.209.

[21]   "Post-Dispatch", 26 ma. 1901; "Republic", 1 set. 1907; Interviste.

[22] Il Pensiero", 17 ag. 1929; Silvio Pucci, My Memoirs of the Nili, autobiogra­fia non pubblicata.

[23] Giovanni Schiavo, The Italiani in Missouri, Chicago, Italian Publishing Company, 1929, p. 59.

[24] John Walter Galus, The History of the Catholic Italians in St. Louis, Master's Thesis, St. Louis University,  1936; Francesco Zabogolio al Vescovo Scalabrin, 1889, Archives of St. Louis, Congregation of St. Charles (Rome), Missionari di san Carlo Scalabriniani; Rev. John Rothensteiner, History of the Archdiocese of St. Louis, St. Louis, Blackwell-Wielandy, 1928; Intervista

[25] "La Lega Italiana", 21 gen. 1921.

[26] Bruce Alsopp, Romanesque Architecture.

[27] Schiavo, The Italians in Missouri..., cit., p. 60.

[28] Intervista al vescovo Charles Koester, 9 lug. 1973 e 16 feb. 1976

[29] Intervista a Louis Jean Gualdoni, 19 ag. 1973.

[30] Intervista a Lou Berra, 11 lug. 1973.

[31] Intervista a Lou Cerutti, 7 ag. 1975.

[32] Intervista con Gualdoni.

[33] Naturalization Papers, 1906-1936, Immigration Bureau, U.S. District Court, St. Louis.

[34] Intervista a Roland De Gregorio, 18 ag. 1973.

[35] "Globe-Democratic", 22 apr. 1963.

[36] Naturalization Petitions, U.S. Census Bureau, Sixteenth Census of the Uni­ted States, 1940, Population and Housing, vol. VI, tab. 3.

[37] Intervista a Gualdoni;   "Globe-Democratic",  12 dic.  1970; intervista a Lou Berra Jr., 17 ag. 1973.

[38] "Globe-Democratic", 22 apr. 1963, "Post-Dispatch", 19 mag. 1964.

[39] Intervista a Di Gregorio.

[40] Intervista a Charles Pozza, 6 ag. 1975.

[41] Intervista a Paul Berra, 31 lug. 1973.

[42] Intervista con Caterina Borghi, 29 lug. 1975.

[43] Intervista con Koester.

[44] Ibid.

[45] Frederic Thrasher, The Gang, Chicago, Chicago University Press, 1927; Wil­liam  Foote Whyte, Street Corner Society, Chicago, University of Chicago Press, 1943; Harvey Warren Zorbaugh; The Gold Coast and the Slum, Chicago, University of Chicago Press, 1929.

[46] Federak Census [or Metropolitan St. Louis, pp. 85-87.

[47] Elmer  Shorb  Wood, Fairmount Heights: an Italian  Colony in St.  Louis, Master Thesis, Washington University, 1936, p. 45.

[48] Ruth Crawford, The Immigrant in St. Louis, St. Louis, non pub. (1916), p. 54.

[49] Intervista a Berra.

[50] Garagiola, Baseball..., cit, p. 15.

[51] .Berra, Yogi..., cit., p. 35.

[52] Intervista, gli intervistati preferirono restare anonimi.

[53] Wood, Fairnount Heights..., cit., p. 24.

[54] Intervista a De Gregorio.

[55] "Post-Dispatch", 9 mag. 1941.

[56] Intervista a De Gregorio.

[57] Intervista a Lou Berra

[58] James Francis Robinson, The History of Soccer in the City of St. Louis, pPh.D., Dissertation, St. Louis University, 1966.

[59] Eugene Weber, Gymnastics and Sports in Fin de Siecle, France: Opium of the  Classes? ,  "American  Historical  Review",  n.   76,   1971, pp. 70-98, Frederic Paxson, The Rise of sport, "Mississippi Valley Historical Review", IV, 1917, pp. 142-68.

[60] Post-Dispatch", 9  mag.  1941; intervista con Joe Correnti, 30 apr.  1976; "Post-Dispatch", 1  mar.  1953; intervista con Bill Kerch, 28 apr. 1976; Joe Corren­ti, History of Correnti's Soccer Team, 1946-47, manoscritto non pubblicato.

[61] Intervista a Anthony Palumbo, 23 ag. 1973.

[62] Interviste; Documenti della American Legion.

[63] Gary Mormino, Over Here: St. Louis Italo-americans and the First World War,  "Missouri  Historical   Society  Bulletin",  XXX,  4  ott.   1973; John Higham: Strangers in the Land, Boston, Athenaeum, 1970.

[64] Intervista a Koester.

[65] Ibid.

[66] "Crusader Clarion", 11 gen. 1943.

[67]  Intervista a De Gregorio

[68] Richard Pillenberg, War and Society: The United States: 1941-45, Filadelfia, Lippincott, 1972.

[69] Intervista a Koester.

[70] St. Ambrose Archives, "Historical Review of St. Ambrose Church".

[71] Seventeenth Census of the United States, 1950, Population and Housing, Washington, U.S. Government Printing Office, 1952, pp. 199-201.

[72] Sixteenth Census of the United States, 1940, Population and Housing, tab.

[73] Lettera di Elmer Wood all'A., 22 ag. 1973

[74] Ibid.

[75] Urban Decay in  St. Louis, The Institute for Urban and Regional Studies, Washington  University, working papers n.  10, mar. 1972; Barbara Williams, St. Louis, a City and its Suburbs, Santa Monica, The Rand Corporation, 1973.

[76] "Star-Times", 8 ag. 1949.

[77] Mark Geers, Ethnics Alive and  Well on  the Hill,  "St. Louisian"   V   sett 1974, p. 38.