Rudolph J. Vecoli di Ferdinando Fasce |
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Esplorate con una felice combinazione di finezza analitica ed esperienza di vita quotidiana, quelle forme venivano gettate dallo storico di origine italiana tra le ruote della macchina assimilazionista di Handlin, mettendola apertamente in discussione sotto il peso di una corposa evidenza di pratiche e manifestazioni culturali attive e vitali. Di lì, su un terreno non lontano, anche se più prosaico e con minori ambizioni teoriche di quello del quasi coetaneo e anch’egli figlio di immigrati e studente wisconsiniano Herbert G. Gutman, Vecoli partiva per un’indagine che lo avrebbe portato a esplorare gli aspetti più riposti della quotidianità di vita etnica italo americana (celebri, fra l’altro, gli studi sulla religiosità immigrata), i residui delle culture originarie, la complessa opera di trasferimento e adattamento da esse conosciute nell’ambiente di arrivo. Quest’ultimo veniva spogliato degli ingenui e riduttivi schemi del melting pot, ancora in parte in auge nell’ormai esangue vulgata progressista dei primi anni sessanta e destinato a ritornare, secondo Vecoli, ma in chiave conservatrice, di irrigidimento della dimensione duale razziale bianco-nero e di chiusura della prospettiva etnica, nel decennio ottanta. Costante e sempre più metodologicamente avvertita sarebbe stata da allora, nello studioso nel frattempo approdato all’Università del Minnesota, la tematizzazione, in tutta la loro complessità, del duplice nodo del rapporto migrazioni-etnia-società più ampia, da un lato, e del nesso etnia-classe, dall’altro. L’uno rivelava, a un’analisi ravvicinata, chiaroscuri e opacità che non potevano essere sottovalutati o passati sotto silenzio. L’altro si costituiva come asse portante, che, se nelle ricerche degli anni sessanta e settanta sostanziava la plasticità della agency immigrata italo americana di contro al vecchio modello assimilazionista, in seguito, dal decennio novanta in poi, salvaguardava il quadrante analitico dall’appiattimento su un multiculturalismo autoreferenziale e sull’astratta ossessione della whiteness, del costrutto identitario, egemone e oppressivo, "bianco" come categoria onnicomprensiva. Vecoli gridava la sua opposizione a "una formulazione del multiculturalismo che relega gli Euro-americani alla categoria di ‘bianchi’ (o persone di non-colore) privi di etnicità e che sottovaluta la rilevanza della classe nella società umana". E si affermava nel tempo come un innovativo studioso, specie dei radicals italo americani; uno straordinario suscitatore di risorse di ricerca, attorno all’Immigration History Research Center dell’Università del Minnesota, da lui fondato e diretto a Minneapolis; e un intellettuale pubblico impegnato, capace di svolgere un ruolo pionieristico nella promozione di un salutare dialogo transoceanico tra le comunità scientifiche e le sfere pubbliche dei due paesi fra i quali si è divisa e ricomposta la sua intensa attività scientifica e culturale. Ferdinando Fasce Luglio 2008 |
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