Rudolph J. Vecoli   di Ferdinando Fasce

 

 

 

 

Con la morte di Rudolph J. Vecoli, scomparso il 17 giugno 2008 fa a Minneapolis, nel Minnesota, abbiamo perduto il padre delle ricerche di storia degli italo americani negli Stati Uniti e un formidabile studioso delle minoranze radicali interne a tale gruppo. Difficile ricordarlo oggi senza cominciare da un articolo di oltre quarant’anni fa nel quale l’allora trentasettenne studioso, nato in Connecticut da genitori livornesi e poi formatosi all’università del Wisconsin, lanciava un attacco vibrante e puntuale, dalle colonne di un’importante rivista accademica, contro un monumento della storiografia d’oltre Atlantico. Il monumento era Gli sradicati, il libro col quale all’inizio degli anni cinquanta il grande storico harvardiano Oscar Handlin aveva meritoriamente portato la vicenda migratoria al cuore di una storiografia statunitense sostanzialmente refrattaria a questi temi, ma ne aveva poi rinserrato i protagonisti in un’immagine, passiva e involontariamente vittimista (forse non lontana da tanta storia di sole vittime, squartate e oppresse dal "terribile Novecento", odierna), di "sradicati". Sradicati che "attendevano pazienti nell’aria quieta e silente, reprimevano la rabbia coscienti della propria impotenza, e si ripromettevano di tornare docilmente nelle buie cuccette che ospitavano la loro abbiezione". L’attacco lanciato dal giovane Vecoli comparve sotto l’esplicito titolo di Contadini in Chicago: A Critique of The Uprooted. Sulla base di un lungo e paziente lavoro di ricerca, culminato nella tesi di dottorato, Vecoli sottoponeva Handlin a una critica spietata, sottolineando come "parlare di alienazione come l’essenza dello spirito migrante significa ignorare la persistenza delle forme tradizionali di vita di gruppo".

Esplorate con una felice combinazione di finezza analitica ed esperienza di vita quotidiana, quelle forme venivano gettate dallo storico di origine italiana tra le ruote della macchina assimilazionista di Handlin, mettendola apertamente in discussione sotto il peso di una corposa evidenza di pratiche e manifestazioni culturali attive e vitali.

Di lì, su un terreno non lontano, anche se più prosaico e con minori ambizioni teoriche di quello del quasi coetaneo e anch’egli figlio di immigrati e studente wisconsiniano Herbert G. Gutman, Vecoli partiva per un’indagine che lo avrebbe portato a esplorare gli aspetti più riposti della quotidianità di vita etnica italo americana (celebri, fra l’altro, gli studi sulla religiosità immigrata), i residui delle culture originarie, la complessa opera di trasferimento e adattamento da esse conosciute nell’ambiente di arrivo. Quest’ultimo veniva spogliato degli ingenui e riduttivi schemi del melting pot, ancora in parte in auge nell’ormai esangue vulgata progressista dei primi anni sessanta e destinato a ritornare, secondo Vecoli, ma in chiave conservatrice, di irrigidimento della dimensione duale razziale bianco-nero e di chiusura della prospettiva etnica, nel decennio ottanta.

Costante e sempre più metodologicamente avvertita sarebbe stata da allora, nello studioso nel frattempo approdato all’Università del Minnesota, la tematizzazione, in tutta la loro complessità, del duplice nodo del rapporto migrazioni-etnia-società più ampia, da un lato, e del nesso etnia-classe, dall’altro. L’uno rivelava, a un’analisi ravvicinata, chiaroscuri e opacità che non potevano essere sottovalutati o passati sotto silenzio. L’altro si costituiva come asse portante, che, se nelle ricerche degli anni sessanta e settanta sostanziava la plasticità della agency immigrata italo americana di contro al vecchio modello assimilazionista, in seguito, dal decennio novanta in poi, salvaguardava il quadrante analitico dall’appiattimento su un multiculturalismo autoreferenziale e sull’astratta ossessione della whiteness, del costrutto identitario, egemone e oppressivo, "bianco" come categoria onnicomprensiva. Vecoli gridava la sua opposizione a "una formulazione del multiculturalismo che relega gli Euro-americani alla categoria di ‘bianchi’ (o persone di non-colore) privi di etnicità e che sottovaluta la rilevanza della classe nella società umana". E si affermava nel tempo come un innovativo studioso, specie dei radicals italo americani; uno straordinario suscitatore di risorse di ricerca, attorno all’Immigration History Research Center dell’Università del Minnesota, da lui fondato e diretto a Minneapolis; e un intellettuale pubblico impegnato, capace di svolgere un ruolo pionieristico nella promozione di un salutare dialogo transoceanico tra le comunità scientifiche e le sfere pubbliche dei due paesi fra i quali si è divisa e ricomposta la sua intensa attività scientifica e culturale.

Ferdinando Fasce

Luglio 2008