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L’economia e la società Nord Americana dinanzi al fenomeno dell’immigrazione italiana
Nonostante l’indubbia rilevanza e alcuni considerevoli risultati di ricerca, il tema del lavoro emigrato dalla nostra penisola negli USA fra Otto e Novecento resta ancora in notevole misura da esplorare, come osservano autorevoli studiosi da entrambe le parti dell’Atlantico [1] Certo non gli ha giovato l’essersi trovato a cavallo di due sub-discipline, la storia del lavoro e quella delle migrazioni, che, come e più che da altre parti, hanno pagato da noi il prezzo di limiti inveterati della nostra storiografia e del nostro discorso pubblico, quali il provincialismo, il ritardo e la diffidenza nei confronti delle scienze sociali e della storia sociale, nonché l’eccessiva sensibilità alle alterne (e precarie) fortune degli attori politici e sociali che costituivano l’oggetto di indagine dei due campi [2] . Evidentemente senza alcuna pretesa di esaustività, questo intervento intende fare il punto sulle conoscenze in materia, intrecciando la letteratura disponibile e i risultati di ricerche svolte direttamente da chi scrive. Ne sono oggetto tre questioni la cui disamina consente di inquadrare storicamente la vicenda delle migrazioni transatlantiche dall’Alto Milanese e del loro rapporto col mondo del lavoro USA [3] . La prima riguarda la natura e i caratteri essenziali dell’economia e della società statunitense nella fase cruciale del “secolo delle migrazioni”, cioè nel periodo compreso tra gli anni ottanta-novanta dell’Ottocento e gli anni venti del secolo successivo [4] . La seconda concerne la collocazione che gli italiani trovano in generale in questa società dal punto di vista occupazionale e delle condizioni lavorative. La terza riguarda la presenza italiana nel mondo del lavoro organizzato, gli sforzi che i nostri migranti fanno per costruire un’identità collettiva inserita nell’universo associativo d’oltre Atlantico, i rapporti che intessono con le organizzazioni operaie statunitensi e l’impatto che questo ha sui rapporti di classe nella repubblica nordamericana [5] .
Il crogiolo della modernità.
Com’è noto, nel periodo qui considerato gli Stati Uniti sono la patria della cosiddetta seconda rivoluzione industriale, così come l’Inghilterra lo è stata della prima. Sono la terra dell’elettricità, dell’acciaio prodotto su larga scala, delle nuove comunicazioni. In questi 30- 40 anni il loro sistema produttivo si concentra sempre più sull’industria: dal 1890 in poi, l’industria supera l’agricoltura, il primario, come percentuale di contributo al prodotto nazionale lordo. Gli USA sono dunque una società industriale tendenzialmente avanzata, caratterizzata da tre elementi, strettamente legati fra loro. Il primo è la concentrazione, industriale e finanziaria, che si intensifica soprattutto negli anni a cavallo fra Otto e Novecento. Il secondo è la massificazione, la produzione su volumi crescenti per un mercato di massa, che è anzitutto quello interno, perché questa è stata sempre la forza degli Stati Uniti, il grande mercato interno. Il terzo elemento è la razionalizzazione, l’introduzione di sistemi produttivi che sono quelli che in genere identifichiamo con le catene di montaggio e con il taylorismo [6] . Contemporaneamente quella USA è un’economia che sta producendo una robusta proiezione verso l’esterno: dapprima essenzialmente commerciale, ma gradualmente anche finanziaria, sullo sfondo di un contrastato approdo del paese al rango di grande potenza [7] . Ne sono testimoni un paio di episodi riguardanti Genova e Milano, nei quali si riflettono le complesse traiettorie che questa nuova e crescente presenza economica internazionale USA disegna e i suoi legami con il nostro paese. A Genova, nei cantieri Ansaldo all’inizio del 1898, quando sta per scoppiare la guerra fra gli Stati Uniti e la Spagna sulla questione di Cuba, troviamo emissari statunitensi che cercano di comprare una nave dall’Ansaldo, che ha promesso quella stessa nave alla Spagna. In ultimo la nave non andrà a nessuno dei contendenti, perché il governo italiano decide di assumere una posizione ufficiale di neutralità. Ma questo dà l’idea del mercato internazionale che si va costruendo e quindi di questa prima fase di globalizzazione, come oggi la chiamano gli studiosi, ovvero una fase di interdipendenza economica internazionale di particolare intensità, che si sta mettendo in moto, con al centro, in misura crescente, gli Stati Uniti. Lo conferma tre anni dopo, nella primavera del 1901, la visita agli uffici del reparto Valori Esteri della Banca Commerciale Italiana a Milano da parte del vicepresidente della National City Bank, Frank Arthur Vanderlip. Valderlip è venuto in Europa e in Italia a studiare il mercato finanziario europeo, a vedere se e dove è possibile investire, e se ci si può inserire nel grande affare, che sta crescendo, delle rimesse degli emigranti [8] . Dalle riflessioni di Vanderlip su questo suo viaggio emergono due elementi che paiono distinguere nettamente la società che va emergendo negli USA da quelle europee; elementi che trovano riscontro, del resto, nelle annotazioni di numerosi altri osservatori, americani e italiani, dell’epoca. La prima sono le dimensioni, la bigness dell’America; la seconda è la velocità. Gli Stati Uniti sono, o si sforzano di essere, una società più veloce, con tutto quello che questo comporta, nel bene e, per molti versi, nel male, per chi va là a lavorare e si trova immesso in un grande, enorme, processo di formazione di classe. E’ una classe operaia composita, eterogenea, che nasce all’intersezione di tre segmenti principali, a loro volta suddivisi in innumerevoli rivoli. La prima componente è una generazione di lavoratori urbani di old stock (cioè provenienti dall'Europa settentrionale e occidentale o nati negli USA da immigrati da quelle aree), che parlano inglese oppure tedesco. Si è affacciata sul mercato del lavoro attorno agli anni ottanta dell'Ottocento. La circonda, e ben presto sovrasta sul piano quantitativo, una seconda generazione di cosiddetti "nuovi" immigrati dall'Europa orientale e meridionale, che comprende anche gli italiani, approdati sul nuovo continente soprattutto a partire dagli anni a cavallo del secolo. A questi due segmenti maggiori si aggiunge poi una crescente presenza, nelle fabbriche del Nord e del Medio-ovest, di neri e messicani, che arrivano in queste aree durante la Grande Guerra e negli anni venti [9] . Quindi è un articolatissimo mercato del lavoro nel quale pullulano donne e uomini di estrazioni profondamente diverse, sullo sfondo di decisive modificazioni dei processi produttivi [10] . Infatti, se gli operai "relativamente non qualificati", che in settori come la siderurgia aumentano del 54% nel giro di un solo decennio (fra il 1890 e l'inizio del secolo), occupano con immediata evidenza le rilevazioni statistiche e il campo visivo di chi si muove per le fabbriche in questi anni, non bisogna dimenticare, tuttavia, che le modificazioni societarie e produttive in corso significano anche la formazione di nuovi mestieri industriali e soprattutto l'avvio di un primo, considerevole impulso alla terziarizzazione [11] .
Gli italiani al lavoro.
Eccoci così al secondo punto della nostra esposizione. Gli italiani come si inseriscono in questo contesto? In esso, è bene ricordarlo, si intrecciano dunque tre grandi traiettorie etnorazziali: quella euroatlantica, alla quale anche i nostri migranti appartengono, quella afroatlantica, che si è sviluppata in forma drammatica attraverso la tratta degli schiavi, e quella del Pacifico, che comprende cinesi e giapponesi [12] . In estrema sintesi la presenza italiana ha quattro caratteristiche di fondo. In primo luogo è molto cospicua. Gli italiani sono il secondo gruppo più numeroso che arriva nel primo decennio del Novecento: rappresentano un quarto dei nuovi venuti in tale decennio, secondi solo ai numerosi e variegati gruppi etnici che vengono dall’impero austro-ungarico. Così come risultano il secondo gruppo in assoluto fra i nati fuori degli Stati Uniti, subito dietro i tedeschi, ancora nel 1920 [13] . In secondo luogo, c’è un forte numero di rimpatri. Almeno il 50% in questo periodo poi ritorna o vanno e tornano incessantemente e il 50% ritorna per sempre qui. Terzo elemento: 4/5 vengono dal Mezzogiorno anche se tutte le regioni sono rappresentate. Quarto: sono in genere giovani maschi di origine contadina [14] . Che tipo di lavori fanno? Come sottolinea Vecoli, la principale occupazione è quella del pala e piccone. Nel 1900 il 50% degli italiani sono impiegati come manovali, in particolare nei grandi lavori di costruzione, dove sostituiscono gli irlandesi, quelli che fino a questo momento si sono spaccati la schiena a costruire le strade e le ferrovie. Oppure fanno il pala-piccone nelle miniere (sono a inizio secolo il 10-20% in West Virginia, nel Medio-ovest e nel Sud-ovest), dove talvolta riescono a migliorare la loro posizione, arrivando fino a posizioni qualificate. Ma è una minoranza ridottissima quella degli italiani qualificati in miniera. Così come è una minoranza quella degli skilled italiani che già partono come tali e approdano alle stesse posizioni nella nuova terra, in genere in settori arretrati, dal punto di vista produttivo, con forte qualità del prodotto e strutture non ancora razionalizzate, come la seta [15] . Oppure, ancora, alcuni edili, che arrivano lì con un mestiere, in forza del quale si muovono nel mondo [16] . Senza dimenticare quel 20% delle diaspore italiane composto di artigiani. In generale, dunque, la maggioranza è costituita di manovali, concentrati all’inizio al di fuori della fabbrica vera e propria, secondo un percorso che poi li porta, sempre come manovali e poi come addetti macchina, nel cuore della produzione manifatturiera, dapprima più matura come il tessile (in specie l’abbigliamento, dove rappresentano il 20% del totale) e poi di un’industria in trasformazione come la meccanica [17] . Come si immettono in questo mercato del lavoro? Attraverso due filtri fondamentali. Uno è quello che domina nel celebre libro di Rosa [18] e nel quale sono intrecciate dinamiche altamente contraddittorie di sostegno intraetnico e di spaventoso sfruttamento. E’ il meccanismo che negli Stati Uniti viene definito del “padrone”, con un termine derivato proprio dall’italiano, cioè il meccanismo del sensale di braccia che spesso è un emigrato lui stesso, ha tenuto i contatti con la madrepatria e sposta gente da una parte all’altra dell’oceano. La sposta in numerosi casi in maniera rapinosa, a condizioni proibitive, svendendo i lavoratori alle imprese statunitensi, grandi e piccole, con le quali è in contatto, rubando loro il denaro, addirittura mandando gente in posti dove non c’è lavoro, nel momento stesso in cui in parte li aiuta a sopravvivere nel nuovo mondo. Per cui i lavoratori progressivamente impareranno a difendersi, a usare il “padrone”, ma anche al tempo stesso a difendersene. Così a questo primo canale se ne sovrappone e sostituisce un altro che è quello delle reti amicali, di villaggio. A mano a mano che si infittisce il numero dei partenti, i migranti scrivono a casa e chiamano i parenti e gli amici, secondo meccanismi che consentono a chi va in America in cerca di lavoro di sottrarsi gradualmente all’influsso del “padrone” e anzi di denunciare quest’ultimo per la violazione delle leggi che egli, in quanto mediatore abusivo di braccia, pratica sistematicamente [19] . Con questo riferimento al tentativo degli italiani di liberarsi del “padrone”, siamo passati, quasi senza accorgercene, alla terza parte del nostro intervento. In questo tentativo infatti vediamo all’opera una logica di coalizione, di azione collettiva, da parte degli immigrati, che può portarli a far causa comune con altri lavoratori di altra etnia e dunque a instaurare un rapporto con il mondo del lavoro organizzato, sulla strada impervia della costruzione di forme d’identità collettiva allargata. Ma, a proposito di identità, prima di esplorare esplicitamente il tema dell’organizzazione operaia, è bene soffermarsi su due punti imprescindibili riguardo alla generale collocazione degli italiani nel mosaico etnorazziale statunitense. Il primo concerne un possibile equivoco, che va sgombrato con forza. Finora abbiamo parlato sempre o quasi di italiani, con qualche accenno, però, alla dimensione locale e di villaggio dalla quale provengono. È bene ribadire che è questa seconda componente quella che predomina. I migranti partono e arrivano prima di tutto con un riferimento al villaggio o alla regione. Tant’è vero che i primi organismi di mutuo soccorso, talvolta con caratteri più o meno direttamente religiosi, hanno come base identitaria il villaggio di provenienza. Scopriranno in seguito di essere italiani e lo scopriranno in un certo senso perché negli Stati Uniti li si indica come tali in maniera negativa, per stigmatizzarli, paragonandoli agli altri gruppi etnici, talvolta indicandoli come “non bianchi”. Scopriranno, cioè, ed è questo il secondo punto da tenere presente, di essere parte di una complessa struttura etnorazziale, una “piramide” saldamente ancorata alla whiteness, cioè alla superiorità dei bianchi anglosassoni; una piramide nella quale, come italiani, occupano, come già gli irlandesi prima di loro e adesso al pari di polacchi o slavi, una posizione intermedia fra i due poli della scala etnorazziale, bianchi wasp e neri. Il che comporta un’identità incerta (un’incertezza acclarata, secondo le scienze sociali differenzialiste di fine Ottocento, dalla carnagione scura degli italiani del Sud, che sono la maggioranza, che pare giustificare un loro apparentamento ai neri), passibile di stigmi e discriminazioni, che passano anche attraverso la terribile esperienza del linciaggio [20] . Per essi quindi la progressiva accettazione da parte delle élites anglosassoni viene solo come conseguenza di un esplicito sforzo di distacco e differenziazione nei comportamenti e nelle dichiarazioni dai neri (afroamericani, portoricani, haitiani) e, laddove si renda necessario, dai gialli (cinesi e giapponesi). La testimonianza di un’immigrata tortonese, vissuta a New York, in un’area contigua a quella nella quale cominciano a stanziarsi i neri, fra il 1906 e il 1911, conferma e chiarisce ulteriormente l’immagine che abbiamo appena delineata. Gli italiani sono nella condizione di “gente di mezzo”, sospesa fra i due estremi della scala dello status definita dalla “linea del colore”. Ma la spada di Damocle, chiarisce l’immigrata, riguarda gli italiani provenienti dal Mezzogiorno, secondo la tendenza dell’establishment statunitense d’inizio secolo a distinguere fra italiani del Nord e del Sud, accogliendo e rafforzando stereotipi già esistenti nel discorso pubblico, culturale e politico, della penisola [21] . I wasp, dice l’immigrata, “disprezzavano i meridionali (italiani). I ragazzi americani li prendevano in giro. Gli dicevano ghini ghini”. Un epiteto, questo, del quale l’immigrata sbaglia la grafia (che è in realtà guinie) perché pare non conoscerne l’origine (guinea), che rinvia al repertorio delle espressioni razziste antineri risalenti all’età della schiavitù e della tratta. I “nordisti” come lei sembrano viceversa al riparo da simili stigmi (“Ci hanno trattato bene perché eravamo piemontesi”, aggiunge l’immigrata). Né va sottovalutata l’osservazione per cui “vicino a casa nostra c’erano dei negri, una famiglia, ma non davano fastidio, erano tranquilli”; un’osservazione che riflette la contraddizione irrisolta, che l’immigrata evidentemente si porta dentro, fra uno stereotipo razziale e la dimensione quotidiana della vita associata, e il travagliato asse d’equilibrio etnorazziale sul quale i nostri connazionali sono chiamati a muoversi [22] .
Gli italiani e il movimento operaio USA.
E’ su questo complicato sfondo di appartenenze contraddittorie e conflittuali che va proiettato il rapporto degli italiani col movimento operaio. Quest’ultimo negli Stati Uniti dell’epoca ha quattro caratteristiche principali. Anzitutto, pur fra ricorrenti impulsi all’iniziativa politica, l’organizzazione operaia è essenzialmente presente sul piano sindacale, per ragioni che attengono all’eterogeneità della forza lavoro e alla presenza di immigrati e neri che non possono votare, al radicamento dei partiti maggiori fra la popolazione lavoratrice ben prima dell’arrivo di un partito socialista e alla struttura stessa, articolata e plurima, del sistema politico [23] . In secondo luogo, essa costituisce una minoranza, non più del 10% della forza lavoro industriale complessiva. In terzo luogo è prevalentemente una minoranza di mestiere, come mostra la confederazione maggioritaria, l’American Federation of Labor (AFL), un organismo nato per iniziativa di lavoratori qualificati, di impronta tendenzialmente moderata, ufficialmente apolitica, con una leadership conservatrice che condivide con il resto della popolazione wasp gli stereotipi etnorazziali predominanti [24] . L’AFL punta sugli operai skilled perché, dice, parlano la lingua inglese, hanno un qualche potere negoziale sul mercato del lavoro e possono pagare le quote sindacali, sono dunque meno vulnerabili degli altri di fronte a un padronato particolarmente orientato in senso antisindacale, perché animato dalla spirito della frontiera e dell’assoluta intangibilità dei diritti di proprietà, come quello USA. Tuttavia, se guardiamo con più attenzione ai punti di forza dell’AFL, notiamo che, con l’avanzare del nuovo secolo, il quadro si va facendo alquanto più mosso e con interessanti aperture anche per i migranti. Persiste, è vero, fra i suoi iscritti la preponderante presenza di mestieri tradizionali come gli edili (carpentieri e imbianchini rappresentano 1/8 del totale), i tipografi, i fonditori e meccanici sulle produzioni di piccoli lotti entro mercati a baricentro locale [25] . Ma con essa convive la crescita costante della United Mine Workers, il sindacato di massa dei minatori che rappresenta da solo quasi 1/5 degli iscritti. E’ un sindacato industriale, che comprende tutti i lavoratori di un settore-prodotto. E’ tollerato all’interno dell’AFL, non senza preoccupazioni e diffidenze, in virtù sia delle tessere che porta alla confederazione, sia di un certo pragmatismo che consente ai suoi dirigenti di venire a patti con i vertici confederali [26] . Ma la sua presenza è spia del quarto tratto del mondo sindacale USA dell’epoca, ovvero una complessa nebulosa di sforzi per superare le barriere del mestiere, che si sviluppa dentro e al di fuori dell’AFL. Al centro di questi sforzi troviamo il progetto di "democrazia industriale", come completo autogoverno dei lavoratori, elaborato dai rivoluzionari Industrial Workers of the World. Troppo note sono le vicende generali riguardanti l'IWW [27] per indugiarvi, se non nei limiti di un paio di annotazioni. La prima riguarda il fatto che, per quanto piagata da endemiche difficoltà, interne ed esterne, che le impediscono di tener fede alle enormi ambizioni del proprio programma, la centrale sindacalista rivoluzionaria riesce comunque a dare una risposta immediata alla domanda di organizzazione proveniente da immigrati e lavoratori non qualificati e a raccogliere e trasmettere a onda sull'intero territorio nazionale voci a lungo inascoltate del mondo del lavoro. Esemplare in questo senso lo sciopero tessile di Lawrence, nel Massachussets, del 1912, che, attorno a una lunga e vittoriosa disputa sindacale che coinvolge 25.000 lavoratori, innesca inaudite forme di mobilitazione e solidarietà per gli italiani, che ne sono magna pars, sulle due sponde dell’Atlantico. La solidarietà arriva a toccare, ad esempio, la Camera del Lavoro di Sestri Ponente, controllata dagli anarcosindacalisti, che, dalle colonne del loro foglio locale, “Lotta operaia”, lanciano sottoscrizioni e minacce di agitazioni a favore dei lanaioli in lotta a migliaia di chilometri di distanza [28] . In secondo luogo, non meno importante è il fatto che i wobblies, sia pure tra non pochi limiti e contraddizioni, finiscono per indurre nuovi impulsi all'azione e a una più combattiva definizione della propria identità in organismi sindacali a loro preesistenti e che operano a fianco di e contro l'IWW stessa. Così è con la citata UMW o con la International Ladies' Garment Workers (ILGW), il sindacato industriale dell'abbigliamento femminile, in polemica col quale le giovani operaie italiane di New York aderiscono all’IWW nel 1913, per poi dare vita, nel dopoguerra, a una più combattiva sezione della stessa ILGW [29] . Sospesa fra AFL e IWW, una ristretta, ma indomita, minoranza radical italiana (concentrata in una certa misura nella Federazione Socialista Italiana, FSI) svolge dunque una non facile e controversa funzione di mediatori, in più sensi: fra la comunità italiana e il movimento operaio USA e le sue frange di sinistra, e fra i lavoratori italiani e la società statunitense nel suo insieme. Controversa, dicevamo, perché questi radicals, non di rado fortemente divisi fra loro (anarchici, sindacalisti rivoluzionari e socialisti) sono essi stessi per primi ancora combattuti fra vecchio e nuovo mondo. Alcuni di loro tendono a privilegiare il vecchio mondo, le speranze di tornare e cambiare profondamente l’Italia. E finiscono in certi casi per piegare alla dimensione etnica e nazionalista gli impulsi di classe, oppure per rinchiuderli in una visione dogmatica e fideista. Nondimeno questa figura del sindacalista di sinistra su base etnica è un veicolo cruciale attraverso il quale gli italiani - osteggiati dalle organizzazioni operaie maggioritarie di mestiere perché considerati di volta in volta o troppo passivi o troppo ribellistici - entrano in contatto sia col mondo del lavoro organizzato, sia con la società USA nel suo insieme [30] . In alcuni casi, con straordinari, anche se temporanei, effetti di solidarietà inter-etnica e di classe quali rileviamo nella comunità dei sigarai di Tampa, Florida. Lì, nel primo Novecento, si costituisce una comunità del lavoro “latina” (spagnoli, cubani e siciliani) che per un certo periodo tiene in scacco gli imprenditori anglosassoni. E da lì vengono, del resto, con un altro esempio di solidarietà internazionale che ancora attende di essere adeguatamente studiato, le sottoscrizioni che contribuiscono a tenere in vita l’influente e combattivo giornale anarchico “Il Libertario”, che si stampa, negli stessi anni, a La Spezia [31] . Così come attende di essere studiata adeguatamente la presenza degli italiani tra le file della UMW in Colorado, negli anni novanta dell’Ottocento e poi durante un drammatico sciopero nel 1903-1904. Una presenza, questa, che esemplifica efficacemente la tormentata dialettica, alla quale non di rado, come rileva ancora Vecoli, gli italiani furono sottoposti, fra la partecipazione alle lotte e alla mobilitazione e la persistente difficoltà a farsi accettare come parte integrante del movimento operaio maggioritario. In questo caso la dirigenza nazionale della UMW non crede al potenziale degli scioperanti italiani, che viceversa mostrano un inaudito attaccamento alla causa operaia, combinando spirito militante di classe e codici identitari locali, “campanilistici”. Per cui, essendo in maggioranza siciliani, chiamano la propria comunità all’impegno militante in nome dell’onore dei siciliani e dello spirito di indipendenza che i loro antenati hanno mostrato in occasione dei celebri Vespri nel lontano Medioevo [32] . Né, del resto, si può sottacere l’assenza, per ora, negli studi su immigrazione e lavoro, di un quadro organico delle vicende del sindacalismo italiano nel settore, pure assai rilevante, dell’abbigliamento maschile negli anni cruciali a cavallo della prima guerra mondiale [33] . Ma perché la prima guerra mondiale è importante per gli italiani ? Intanto perché, col blocco forzato degli spostamenti transatlantici, essa induce un effetto di consolidamento fisiologico delle comunità immigrate, rafforza l’impulso a rimanere, trasforma in permanente un insediamento spesso considerato fino a quel momento come temporaneo. In secondo luogo, la guerra mondiale induce un meccanismo identitario, di costruzione dell’identità su base più ampia di quella regionalistica o di villaggio, che comunque persiste. Durante la guerra infatti si scopre, perché c’è la propaganda del governo italiano, che si è italiani. Ma contemporaneamente arriva la propaganda del governo americano che richiama alla fedeltà nei confronti della nuova patria. E la fortuna per i migranti italiani, a differenza di altre nazionalità, è che in questo caso Italia e Stati Uniti sono dalla stessa parte. Sicchè allora gli italiani usciranno dalla prima guerra mondiale con un po’ più di italianità e un po’ più di americanità. Come dice Vecoli, davvero si potrà cominciare a dire che sono italoamericani [34] . Ma, non dimentichiamolo, durante e soprattutto dopo la guerra mondiale, c’è anche una grande effervescenza sociale, che libera e cristallizza, tra passioni politiche vissute profondamente e inveterati pregiudizi di etnia e di razza, le domande popolari di partecipazione e di migliori condizioni di vita accumulatesi dall’inizio del secolo. Complici i primi sforzi di mediazione delle vertenze industriali sviluppati dagli organismi della mobilitazione sotto l’impulso degli esponenti più progressisti dell’amministrazione Wilson, la mobilitazione bellica ammanta tali domande di un’inedita legittimità, facendo, almeno sulla carta, di lavoratori, immigrati, donne e neri, altrettanti cittadini-soldati (o lavoratori-soldati) consci dei propri diritti [35] . Sull’onda di tali lotte, nel 1919-20 migliaia di operai investono delle loro richieste, salariali e di riconoscimento del diritto all’organizzazione e alla contrattazione, i settori produttivi più diversi; lanciano contro capi e padroni l’accusa di essere i “nuovi kaiser” e i “nuovi Hindenburg” che sovvertono, con il loro rifiuto di ogni trattativa, l’edificio democratico d’oltre Atlantico; fanno balzare le percentuali degli iscritti al sindacato a oltre un quinto del totale degli occupati nell’industria (più del doppio dei livelli prebellici). Un’idea di come anche gli italiani siano coinvolti in questo magma di mobilitazione e nuova consapevolezza ce lo fornisce il caso di Waterbury, una media città del Connecticut, capitale dell’ottone, nella cui principale impresa, la Scovill, su diverse migliaia di dipendenti oltre il 50% è nato al di fuori degli Stati Uniti, con una rilevante presenza (il 20%) di italiani, provenienti in gran parte dal Beneventano e dalla provincia di Potenza, secondo il classico veicolo delle catene migratorie. Nell’immediato dopoguerra, in una fabbrica come Scovill, famosa per la pace sociale che vi ha regnato per decenni, scoppiano due scioperi, il più rilevante dei quali nel 1920, così ampio da guadagnarsi articoli sul “New York Times”. E’ interessante osservare da vicino le quattro diverse fonti di identità che si contendono, in un delicatissimo processo di costante rielaborazione culturale e politica che corre all’interno delle singole persone, delle famiglie e dei quartieri, l’attenzione e la fedeltà dei migranti italiani. Il primo è costituito da ciò che un grande letterato inglese, Raymond Williams, ha definito i “sentimenti di classe”, cioè la consapevolezza, immediata e primordiale, della propria condizione lavorativa, una sensazione che nasce quasi insensibilmente come frutto della coesistenza quotidiana, fra italiani, lituani e altri gruppi etnici, all’interno della fabbrica, a condividere asprezze, discriminazioni e sfruttamento. Il secondo è l’impulso esplicito a coalizzarsi, vincendo le divisioni etniche e quelle professionali e la separatezza nei confronti degli operai qualificati, wasp e irlandesi; un impulso che proviene, non senza opacità e rigidezze ideologiche, da quelle minoranze radical, socialiste e soprattutto IWW, nascoste in città, anche dentro la comunità italiana, che cercano di far sentire la loro voce in fabbrica. La terza fonte di identità è quella più stabile e forte, viene dalla comunità etnica, adesso sospesa fra il campanilismo e lo spirito di italianità che la guerra, come abbiamo detto, ha esaltato, trovando riscontro soprattutto nell’embrionale, conservatore, ceto medio italoamericano in formazione in città. In assenza di organizzazioni operaie ufficiali, saranno infatti le varie società di mutuo soccorso dei diversi gruppi etnici a fornire la base di sostegno materiale dello sciopero, il cui comitato di lotta è appunto una federazione di organismi, ognuno basato sul proprio gruppo. Con dinamiche a tratti paradossali, come quella che vede il leader degli italiani - che è in realtà un giornalista conservatore, uno che non vorrebbe che si scioperasse, ma che è comunque rispettato dai lavoratori per la sua capacità di mobilitare risorse a favore dei connazionali, in qualunque situazione vengano a trovarsi - continuamente incalzato dagli scioperanti, che lo confermano alla guida del gruppo, costringendolo a sottoscrivere la continuazione dell’agitazione, sotto la spinta dei loro compagni di fabbrica, più militanti e determinati, di origine lituana e russa. La bandiera che il comitato di sciopero inalbera, quella dei diritti dei lavoratori americani, getta luce sulla quarta fonte di identità degli italiani in sciopero di Waterbury: la promessa di cittadinanza sociale che ha accompagnato l’intervento in guerra statunitense, la speranza che la guerra serva davvero, come dice la propaganda wilsoniana, a “rendere il mondo sicuro per la democrazia”, ovvero, come la intendono i militanti operai, ad allargare i confini della democrazia anche al di là dei cancelli della fabbrica [36] . Per oltre cento giorni i migranti italiani di Waterbury si trovano esposti a queste quattro fonti di identità, che riassumono le sfide e le difficoltà che una presa di parola collettiva comporta per loro. Saranno sconfitti pesantemente dal padronato e dalle componenti anglofone cittadine, coalizzate contro i “nuovi venuti”. E in città non si parlerà mai più di scioperi e sindacati fino agli anni trenta. Quando cioè, all’ombra del New Deal, nasce un sindacato di massa e gli italiani vi partecipano, superando le paure che la sconfitta del 1920 ha sedimentato, in questa come in innumerevoli altre città del paese nelle quali sono accadute vicende simili [37] . E’ anche vero, tuttavia, che, a differenza di Waterbury, in altre città troviamo reduci di queste battaglie, capaci di trasmettere l’eredità, comunque positiva, dei precedenti sforzi di organizzazione operaia e di fare da tramite fra diverse generazioni. Così accade con gli ex socialisti della FSI diventati nel frattempo militanti o funzionari dell’ILGWU, avvicinatisi al partito democratico e poi approdati come funzionari del nuovo sindacato di massa del Congress for Industrial Organization (CIO) [38] . O con un italoamericano col quale vorremmo concludere questa inevitabilmente rapida perlustrazione del rapporto fra i migranti dalla penisola e il mondo del lavoro USA; un caso che esemplifica il percorso di una significativa minoranza di nostri connazionali. Si chiama Nick Di Gaetano, emigra nel 1907, a quindici anni, da Castellamare del Golfo, in Sicilia, terra dei famosi “fasci” contadini degli anni novanta, a Detroit. Dove diventa lucidatore nell’auto, incomincia progressivamente a interessarsi anche all’organizzazione operaia, aderendo al piccolo sindacato di mestiere del settore affiliato all’AFL e conservandone la tessera, per garantirsi una maggiore agibilità in fabbrica, anche quando si radicalizza e aderisce all’IWW. Finché riesce, sopravvivendo ai magri anni venti della repressione e della crisi economica e sociale, ad approdare, nell’età del New Deal, al nuovo sindacato di massa dell’auto, la United Automobile Workers, e al CIO, portandovi una lunga esperienza di militante. Un’esperienza grazie alla quale veterani come lui aiutano gli operai italoamericani di seconda generazione, nati negli Stati Uniti, a ritagliarsi un posto nel sindacato dell’auto, accanto agli altri “etnici”. Li aiutano a combattere gli stigmi yankee forti anche dentro il sindacato, a premere sugli imprenditori per migliori condizioni di vita e sullo stato per le pensioni, a fare il salto da “creature modeste e sottomesse a uomini”. Nella vicenda di Di Gaetano il velo di nostalgia per la fanciullezza in Sicilia si mescola alla ribadita volontà di vivere e organizzarsi pragmaticamente, con grande dignità, “all’americana”, e all’eterna vocazione internazionalista wobbly . A testimonianza di come la complessità identitaria non sia un privilegio o una condanna postmoderna. Ma abbia invece una storia profonda, in larga misura distesa fra le due sponde dell’Atlantico, che attende soltanto di essere, come merita, pienamente compresa e valorizzata [39] .
(*) Docente di storia delle istituzioni della America del nord Università di Genova [1] R. J. Vecoli, Negli Stati Uniti, in P. Bevilacqua – A. De Clementi – E. Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana. Arrivi, Roma, Donzelli, 2002, pp. 57-71; S. Musso, Gli operai nella storiografia contemporanea. Rapporti di lavoro e relazioni sociali, in Idem (a cura di), Tra fabbrica e società. Fondazione Giangiacomo Feltrinelli Annali. Trentatreesimo, Milano, Feltrinelli, 1997, p. 13 n. 51. [2] M. Sanfilippo, Problemi di storiografia dell’emigrazione italiana, Viterbo, Sette Città, 2003, pp. 139-140 (il libro è la migliore sintesi della storiografia sull’argomento, così come il lavoro di Gabaccia cit. alla n. 8 lo è sul piano di una narrazione sintetica); S. Musso, Storia del lavoro in Italia dall’Unità a oggi, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 7-10; F. Fasce, Tra due sponde. Lavoro, affari e cultura tra Italia e Stati Uniti nell'età della grande emigrazione, Genova, Graphos, 1993, pp. 17-18. [3] Nell’individuare tali questioni ci siamo rifatti liberamente a un classico contributo di E. Grendi, Una prospettiva per la storia del movimento operaio, in “Quaderni storici”, 1972, n. 20, pp. 597-618. [4] Per un’esauriente discussione delle onde lunghe migratorie, distese fra età moderna e contemporanea, vedi Sanfilippo, Problemi di storiografia, cit.. Un’aggiornata narrazione sintetica delle migrazioni dalla penisola è fornita da D. Gabaccia, Italy’s Many Diasporas, Seattle, University of Washington Press, 2000 (trad. it. Emigranti. Le diaspore degli italiani dal Medioevo ad oggi, Torino, Einaudi, 2003). [5] Abbiamo lasciato volutamente fuori dall’analisi la questione - che richiederebbe un contributo specifico e una discussione storiografica adeguata sul ritardo con il quale è stata affrontata dalla ricerca internazionale - del lavoro femminile migrante. Questione sulla quale si vedano comunque almeno i pionieristici D. R. Gabaccia and F. Iacovetta (a cura di), Italian workers of the world , Toronto – Buffalo, University of Toronto Press, 2002 ed E. Vezzosi, Sciopero e rivolta. Le organizzazioni operaie italiane negli Stati Uniti, in Storia dell’emigrazione italiana. Arrivi, cit., pp. 280-282. Cfr. inoltre lo stimolante e innovativo lavoro di F. Ramella, In fabbrica e in famiglia: le operaie italiane a Paterson, New Jersey, in “Quaderni storici”, n. 98, agosto 1998, pp. 383-414. [6] Le migliori sintesi su questi processi restano i classici contributi di D. Nelson, Managers and orkers, Madison, University of Wisconsin Press, 1975 e D. Gordon-R.Edwards-M. Reich, Segmented Work, Divided Workers, New York, Cambridge University Press, 1982, da integrare ora con i più recenti P.A.Toninelli, Nascita di una nazione. Lo sviluppo economico degli Stati Uniti (1790-1914, Bologna, ), il Mulino, 1993, B. Kanigel, The One Best Way. Frederick Winslow Taylor and the Enigma of Efficiency, London, Abacus, 2000 e N.R. Lamoreaux-D.M.G. Raff- P. Temin, Beyond Markets and Hierarchies: Toward a New Synthesis of American Business History, in “American Historical Review”, aprile 2003, pp. 404-433 (che discute gli importanti classici lavori di Alfred D. Chandler jr.). [7] W.LaFeber, The American Search for Opportunity, 1865-1913, Cambridge University Press, 1993 e F. Romero, Gli USA potenza mondiale, Firenze, Giunti, 2001. [8] Fasce, Tra due sponde, cit., pp. 135-136 e 175-176; K.H. O’Rourke, J.G. Williamson, Globalization and History, Cambridge, MIT Press, 1999 e A.G. Hopkins (a cura di), Globalization in world history, London, Pimlico, 2002. [9] J.R. Barrett, Americanization from the Bottom Up: Immigration and the Remaking of the Working Class in the United States, 1880-1930, in "Journal of American History", dicembre 1992. [10] E. Arnesen – J. Greene – B. Laurie (a cura di), Labor Histories. Class Politics, and the Working-Class Experience, Urbana, University of Illinois Press, 1998; F. Tobias Higbie, Indispensable Outcasts. Hobo Workers and Community in the American Midwest, 1880-1930, Urbana, University of Illinois Press, 2003. [11] W. Graebner, The Engineering of Consent. Democracy and Authority in Twentieth Century America, Madison, University of Wisconsin Press, 1987; O. Zunz, Making America Corporate, Chicago, University of Chicago Press, 1990. [12] D. Hoerder, Cultures in Contact. European and World Migrations, 11th c. to 1990s, Durham, Duke University Press, 2000. [13] R. Daniels, Coming to America. A History of Immigration and Ethnicity in American Life, New York, HarperCollins, 2002, 2a. ed., pp. 188 sgg; W. Nugent, Crossings. The Great Transatlantic Migrations 1870-1914, Bloomington, Indiana University Press, 1992, p. 151. [14] Vedi l’importante contributo di Vecoli, Negli Stati Uniti, cit., pp. 56-63. [15] F. Ramella, Reti sociali e mercato del lavoro in un caso di emigrazione. Gli operai italiani e gli altri a Paterson, New Jersey, in Tra fabbrica e società, cit. [16] P. Audenino, Un mestiere per partire. Tradizione ,migratoria, lavoro e comunità in una vallata alpina, Milano, Angeli, 1990. [17] Vecoli, Negli Stati Uniti, cit., pp. 56-57. [18] M. Hall Ets, Rosa. The Life of an Italian Immigrant, 2nd ed., Madison, University of Wisconsin Press, 1989, p. 157. [19] G. Peck, Reinventing Free Labor: Padrones and Immigrant Workers in the North American West, 1880-1930, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, pp. 11 sgg. [20] F. Fasce, Gente di mezzo. Gli italiani e gli “altri, in Storia dell’emigrazione italiana. Arrivi, cit, pp. 239-241; J. Guglielmo & S. Salerno (a cura di), Are Italians White? How Race Is Made in America, New York & Londra, Routledge, 2003; P. Salvetti, Corda e sapone. Storie di linciaggi degli italiani negli Stati Uniti, Roma, Donzelli, 2003. [21] P. D’Agostino, Craniums, Criminals, and the ‘Cursed race’: Italian Anthropology in American Racial Thought, in “Comparative Studies in Society and History”, 2002, n. 2, pp. 319-343 [22] F. Fasce, Dentro e fuori la comunità etnica: testimonianze orali di immigrati italiani in USA nel primo Novecento, in "Movimento operaio e socialista", n.s. IV, 1-2 , p. 47. [23] F. Fasce, Alle origini del sindacalismo d'industria negli Stati Uniti, in M. Antonioli e L. Ganapini (a cura di), I sindacati occidentali dall’800 ad oggi in una prospettiva comparata, Pisa, BFS, 1995, pp. 93-115; A. Testi, Trionfo e declino dei partiti politici di massa negli Stati Uniti, 1860-1930, Torino, Otto Editoria Digitale, 2000. [24] F. Fasce, Società, etnia e razza negli Stati Uniti del Novecento: una discussione aperta, in “Storia e memoria”, 1995, n. 2 , pp. 89-112. [25] J.O. Morris, Conflict within the AFL, Ithaca, 1958, pp. 9-15. [26] D. Brody, In Labor's Cause. Main Themes on the History of the American Worker, New York, 1993, cap. IV. [27] Su IWW e italiani vedi comunque il pionieristico lavoro di B. Cartosio, Gli emigrati italiani e l’ Industrial Workers of the World, in B. Bezza (a cura di), Gli italiani fuori d’Italia. Gli emigranti italiani nei movimenti operai dei paesi d’adozione, Milano, Angeli, 1983, pp. 359-395. [28] M. M. Topp Those Without a Country. The Political Culture of Italian American Syndacalists, Minneapolis e London, University of Minnesota Press, 2001; “Lotta operaia”, 7 dicembre 1912.
[29]
Vezzosi, Sciopero e rivolta. cit.,p.
282; R.A. Greenwald,
“The Burning Building at 23 Washington Place”: The Triangle Fire,
Workers, and Reformers in Progressive Era New York, in “New York
History”, 2002, n. 1, pp. 5-81. [30] E. Vezzosi, Il socialismo indifferente. Immigrati italiani e Socialist Party negli Stati Uniti fra Otto e Novecento, Roma, Edizioni Lavoro, 1991. [31] G.R. Mormino e G.E. Pozzetta, The Immigrant World of Ybor City. Italians and Their Latin Neighbors in Tampa, 1885-1985, Urbana, University of Illinois Press, 1987; G. Bianco e C. Costantini, “Il Libertario” dalla fondazione alla Guerra mondiale, in “Movimento operaio e socialista”, 1960, n. 5, pp. 138-139. Tampa è, del resto, uno degli oltre cento centri statunitensi (con punte di 17 località della Pennsylvania e 14 del Massachusetts) dal quale provengono fondi a “Il Libertario”, secondo quanto risulta da una nostra analisi del giornale effettuata sul periodo 1904-1910. [32] G. Tortomasi, Appello ai miei fratelli, , in “Il lavoratore italiano”, 13 marzo 1904; S. Brier, "The Most Persistent Unionists: Class Formation and Class Conflict in the Coal Fields and the Emergence of Interracial and Interethnic Unionism, 1880-1904", tesi di dott., UCLA, 1992. [33] F. Fasce, Alle origini del sindacalismo d'industria, cit. [34] Vecoli, Negli Stati Uniti, cit., p. 71. Vedi anche F. Fasce, An American Family. The Great War and Corporate Culture in America, Columbus, Ohio State University Press, 2002 e C. Sterba, Good Americans. Italian and Jewish Immigrants During the First World War, New York, Oxford University Press, 2003. [35] J.A. Mc Cartin, Labor’s Great War. The Struggle for Industrial Democracy and the Origins of Modern American Labor Relations, 1912-1921, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1997, cap. VII; E. Foner, Story of American Freedom, New York, Norton, 1998, cap. VIII. [36] Fasce, An American Family, cit., cap. IV. [37] Ibidem. [38] D. R. Gabaccia e F. M. Ottanelli, Italian Workers of the World. Labor Migration and the Formation of Multiethnic States, Urbana and Chicago, University of Illinois Press, 2001. [39] Fasce, Dentro e fuori la comunità etnica, cit.
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