Il contributo della emigrazione allo sviluppo della economia 

e della società italiana

 

Pietro Cafaro (*)

 

 

Emigrare per crescere: una ineluttabile necessità ?

 

Il tema che mi si è stato proposto è estremamente rilevante e non è certo esauribile in questa breve relazione. Si potrebbero fare interi costi universitari e si potrebbero scrivere volumi e volumi sull’argomento!

Cercherò nel tempo limitato che mi è concesso di tracciare qualche linea significativa sull’argomento introducendo qualche inevitabile semplificazione e limitando cronologicamente il mio intervento all’esperienza europea ed italiana degli ultimi secoli.

 

 

“Girare per il mondo”: una costante per la specie umana

 

L’uomo si è sempre mosso sulla faccia della Terra, l’emigrazione è quindi sempre esistita perché l’uomo, non appena uscito dalla caverna, ha iniziato a cercare il luogo ottimale ove soddisfare al meglio i propri bisogni. E, prima di essere stanziale, è stato nomade, in migrazione costante, quindi. Tra le prime attività che l’uomo mise in atto per potersi dotare dei beni necessari alla propria sopravvivenza ci furono, come è noto, allevamento e agricoltura, due forme di “violenza”, in un certo senso, ai ritmi normali della natura. Ma la natura, dal canto suo, lo costrinse a sua volta ad un graduale adattamento. Se l’uomo cacciatore, pescatore e raccoglitore era costretto a muoversi alla ricerca del cibo, anche l’allevatore e l’agricoltore erano in larga misura “migranti” dovendosi spostare più o meno frequentemente alla ricerca di pascoli più ricchi o di terre sempre più fertili [1] .

Naturalmente la nostra riflessione non può partire così lontano nel tempo: e non possiamo neppure descrivere tutte le grandi migrazioni della storia dell’Occidente; ci limitiamo invece ad osservare quello che è avvenuto negli ultimi secoli per focalizzare poi la nostra attenzione sull’emigrazione che ha interessato il nostro Paese tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Evento, questo, veramente importante perché senza quella tremenda espulsione di mano d’opera probabilmente la modernizzazione del nostro Paese e soprattutto quella parziale industrializzazione di una porzione rilevante del Settentrione non avrebbe avuto luogo.

Prima, però, di affrontare questo tema che costituirà il nucleo centrale della nostra conversazione, qualcosa occorre dire sulla grande migrazione che interessò l’Europa agli albori dell’età moderna. Quando si fa, oggi, riferimento all’emigrazione verso le Americhe avvenuta poco più d’un secolo fa, si parla di seconda migrazione. Ci fu infatti una prima grande migrazione che permise il popolamento da parte degli europei dell’America, di questa terra nuova, scoperta quasi per caso e diventata nel Novecento il nuovo baricentro dell’Occidente [2] .

La prima migrazione permise agli europei di divenire, in un certo senso, i dominatori del mondo, sfuggendo a quella tremenda trappola alla quale tutti gli uomini devono soggiacere in un sistema economico poco evoluto. Mi riferisco alla famosa “trappola” descritta da Robert Thomas Malthus sul finire del XVIII secolo nel suo Saggio sul principio di popolazione [3] . Si tratta di un fenomeno del nostro passato, ma ancora presente in buona parte del mondo.

In un sistema economico privo di agricoltura e di industria moderna, infatti, la crescita economica è molto limitata e generalmente incapace di compensare l’aumento graduale della popolazione. Malthus riteneva si trattasse d’una legge naturale che, per salvaguardare la specie, sacrificava l’individuo: la crescita della popolazione indotta dall’aumento delle risorse essendo molto più rapida dell’accumulo di mezzi, portava velocemente ad una contrazione effettiva delle risorse stesse. In altre parole, potevano anche crescere in assoluto i beni disponibili, ma aumentando più velocemente le bocche da sfamare, la “fetta di pane” si faceva sempre più esigua fino a sparire da molti deschi. Ed ecco allora la natura, in modo più o meno violento, provvedere da sé a ridurre la popolazione: si ritardavano i matrimoni e le nascite, aumentavano carestie ed epidemie, a volte scoppiavano anche guerre sanguinose.

Secondo la legge di Malthus, quindi, nei momenti di crescita economica, la popolazione tende ad aumentare, ma questo aumento, subito dopo, deve fermarsi perché le risorse non riescono più a sostenerla. Si tratta veramente di una trappola che imbrigliò anche l’Europa fino alla fine del ‘700; devo dire che quando Malthus scriveva il suo saggio, era il 1798, non nascondeva il timore che prima o poi qualcosa di tremendo avrebbe dovuto avvenire nel proprio Paese, l’Inghilterra, dove ormai da qualche decennio la popolazione stava crescendo. L’elastico, in altre parole, si stava tirando troppo e primo o poi si sarebbe violentemente spezzato!

Essendo lui stesso immerso nella realtà del suo tempo non si rendeva conto che le cose stavano invece cambiando, e a partire proprio dalla sua Inghilterra. Oggi noi sappiamo, ovviamente facilitati dal “senno di poi”, che la “trappola” fu disattivata da due fattori concomitanti: le rivoluzioni economiche che permisero una crescita inaspettata e la “valvola di sfogo” dell’emigrazione verso le Americhe, che permise agli europei di colonizzare spazi immensi [4] .

Così, la popolazione poté aumentare evitando le catastrofi provocate dal sovraffollamento e procrastinando di più d’un secolo la riduzione, ma questa volta volontaria, delle nascite: solamente quando la consapevolezza del nuovo regime demografico s’impossessò delle persone, una nuova cultura riproduttiva limitò la crescita della popolazione. Ma ormai era ‘900 inoltrato!

Quindi l’emigrazione è servita all’Europa, è servita alla crescita economica dell’Europa. Senza questa “valvola” gli europei non avrebbero innestato quella marcia più veloce che ha permesso loro, in un tempo enormemente ristretto rispetto a quello che l’uomo ha passato sulla terra, di raggiungere livelli di sviluppo come nessun altro popolo ha raggiunto mai nella storia.

 

L’emigrazione e la crescita economica dell’Italia

 

Anche l’Italia, nel suo piccolo, ha fruito dei vantaggi dell’emigrazione. L’Italia ha sempre convissuto con l’emigrazione, per la verità. Non intendo, ovviamente, riferirmi a quella permanente: da sempre dai nostri paesi, soprattutto dagli ambienti montani, dove le risorse non erano sufficienti per la popolazione, molte persone si muovevano per andare Oltralpe dove trovare da lavorare e poi, raggranellato qualche soldo, tornare a casa loro con risorse aggiuntive rispetto a quelle che il magro reddito interno permetteva. Emigrazione temporanea quindi, che ha permesso agli Italiani, in particolare  ai valligiani delle nostre Alpi e dei nostri Appennini di farsi conoscere un po’ in tutta Europa come carpentieri, muratori, ombrellai, spazzacamini … [5]

Mi si permetta, a questo proposito, di precisare meglio la mia affermazione ricordando come il grande Fernand Braudel, nel suo capolavoro Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, definisca la montagna “una fabbrica d’uomini al servizio altrui”. Una affermazione, questa, a mio avviso tutt’altro che negativa dato che assegnava alle “terre alte“ (come le definiva lui) una sorta di primato, quasi una funzione “matrice“ rispetto alle altre aree dell’Europa [6] ,

Ma si trattava di emigrazione stagionale o, in ogni caso, temporanea.

E’ soltanto a partire dalla seconda metà del XIX secolo, però, che si affacciò nel nostro Paese la tremenda, nuova realtà dell’emigrazione permanente. Intere famiglie se ne andavano dal paese, attraversano l’Oceano, arrivano in terre sconosciute, mettevano radici lì per non ritornare più. Inizialmente era il capofamiglia  a spostarsi e poi gradatamente lo seguiva tutta la famiglia. L’Italia cominciava in questo momento ad esportare il suo bene più grande: il lavoro dell’uomo.

C’è una cosa importante che vorrei, a questo punto, sottolineare. Uno dei motivi che, fin dai primi anni di unificazione nazionale, spingevano il nostro governo nazionale in direzioni diverse da quelle di una politica volta ad incentivare l’industrializzazione, veniva dalla constatazione che l’Italia non aveva, e non ha nemmeno oggi, materie prime utilizzabili dall’industria. L’Italia non ha carbone né ferro: non sembrava possibile, quindi seguire la strada dello sviluppo già praticata dall’Inghilterra, dal Belgio o dalla Germania. Questo pensava anche Cavour, e gli uomini della destra storica che ne ereditarono gli ideali politici dopo la sua morte repentina. L’industrializzazione del Paese era vista come una chimera impossibile a realizzarsi, addirittura come qualcosa di irragionevole ed eretico [7] . L’Italia, si diceva, non ha fonti di energia o minerali in genere, non ha mezzi di produzione quindi: questo è il motivo per cui non può auspicare un processo di crescita che non sia quello legato alle materie prime che si hanno, cioè la terra, il sole, l’acqua, almeno dove c’è. Era il pregiudizio fisiocratico di un’Italia terra di agricoltura, al massimo meta di turismo. Un pregiudizio, peraltro, che si sposava molto bene con gli interessi delle potenze europee di quegli anni, dato che potevano fruire di un grande mercato di sbocco per le proprie manifatture senza temere concorrenza interna di sorta [8] .

Queste osservazioni non tenevano però conto d’un fatto: fattori di produzione non sono solo quelli derivabili dalle materie prime energetiche e minerarie. Gli stessi economisti classici, a partire da Adam Smith, in modo forse semplice ma non per questo inefficace hanno individuato tre fattori di produzione: terra, capitale, lavoro. Ed è proprio di quest’ultima forma di capitale (il capitale umano) che il nostro paese è ricchissimo: l’uomo con la propria capacità di lavoro, non solo materiale, ma anche intellettuale. L’uomo che una cultura millenaria ha forgiato all’intuizione, alla capacità lavorativa, all’intraprendenza, al pragmatismo …

E l’uomo poteva veramente essere al centro di un sistema produttivo, anche industriale, e poteva veramente essere il fulcro di tutta la trasformazione del Paese. Ce ne accorgiamo oggi; l’Italia eccelle nel mondo proprio per questo: l’intelligenza, la forza, ma soprattutto la cultura distillata da una tradizione secolare. E il gusto del bello, per stare all’esempio più calzante, non si crea da un giorno all’altro.

Sono gli uomini dell’Italia quindi che hanno creato la fortuna della propria terra e lo si capisce molto bene osservando proprio quel drammatico scorcio di XIX secolo.

Il nostro paese si trovò, al pari di tutta l’Europa, in una situazione veramente inaspettata: quelli, tra il 1875 e il 1896 sono gli anni della cosiddetta Grande depressione europea, che in Italia, essendo il Paese prettamente agricolo, si manifestò come grande crisi agraria. Ed era proprio l’agricoltura a soffrire di una situazione di estremo disagio. Per gli Stati Uniti questi stessi anni sono considerati di Grande espansione; succede quasi sempre così: quando da una parte del globo si soffre per una crisi economica, da un’altra parte, si produce espansione [9] .

Ma cos’era successo? Una cosa inimmaginabile fino a poco tempo prima, un’eruzione vulcanica, nel lontano oriente, provocò una leggera modifica del clima in Europa e, di conseguenza, originò qualche anno di carestia. Fu soprattutto la cerealicoltura ad esserne colpita, ma senza pane non si può sopravvivere. Il grano e suoi succedanei sono la base dell’alimentazione umana e non possono essere facilmente sostituiti con altri elementi.

Per questo la domanda s’indirizzò verso produttori fino a quell’epoca estranei al mercato europeo, e fu così che la produzione americana scoprì un nuovo lucroso sbocco. Gli Stati Uniti d’America erano da poco usciti dall’immane tragedia della guerra civile ed avevano messo a coltura ampie distese di prateria: era terra vergine, altamente produttiva, che non costava niente dato che il governo per facilitare la colonizzazione dell’immenso territorio ad Ovest della Nuova Inghilterra, a più riprese lo concesse gratuitamente a chi s’impegnava a coltivare.

Nel contempo le trasformazioni nel campo dei trasporti avevano permesso al grano che veniva coltivato nel Middle West, poi addirittura nel Far West, di arrivare sulle coste dell’Atlantico, da lì di travalicare l’Oceano anche grazie ai progressi fatti dalla navigazione a vapore e di arrivare a costi molto bassi sul continente europeo. Così quando, finiti gli anni di carestia, la produzione cerealicola europea si apprestò a riprendere l’usuale routine trovò il mercato già occupato.

Voi immaginate quello che dovette succedere in quegli anni nella mente dei nostri governanti italiani. Pensate un po’ all’Italia del dopo Unificazione nazionale che era vissuta cullata dall’illusione cavouriana che tutto poteva essere aggiustato con l’agricoltura, con un’agricoltura intensiva, con un’agricoltura come quella della Bassa Padana, con un’agricoltura che fruiva dei benefici dell’acqua e quindi poteva veramente essere messa di fronte a tutto il Paese come un esempio attività da imitare ovunque, perché lì si coltivava il miglior grano d’Europa, perché quel grano veniva esportato al di là delle Alpi. Ed allora ecco costruire il canale Cavour, il canale Villoresi, per far diventare Bassa anche la pianura che Bassa non era, per coltivare sempre più grano, per poterlo esportare; l’interesse poi degli agrari che sedevano in Parlamento era evidente… Tutto questo finì nel giro di pochi anni perché arrivano dall’America cereali di bassissimo costo che venivano venduti a bassissimo prezzo. Così non solo i cereali italiani non poterono più travalicare le Alpi, ma non poterono più essere collocati nemmeno sul mercato nazionale: una tragedia!

Occorreva un mutamento di rotta immediato, ma queste cose sono sempre abbastanza macchinose. Per parare il colpo, anzitutto si elevò una barriera protezionistica all’importazione, e poi, gradatamente e non in tutto il Paese, si mise in atto tutta una serie di mutamenti di rotta che avrebbe schiuso le porte al primo, parziale “decollo” dell’industria [10] .

Prima che questo avvenisse però, autonomamente, gli uomini, spinti dall’istinto di sopravvivenza, trovarono luna propria strada: quella di affollare le banchine dei porti, di affrontare viaggi della speranza, di approdare al di là dell’oceano, prima individualmente e poi con le proprie famiglie.

Ci furono interi paesi che si trasferirono direttamente in America, in America del Sud più che in America del Nord, soprattutto in Brasile e in Argentina. Non è il Sud Italia a essere toccato, in questo momento, ma è soprattutto il Nord, e in primo luogo il Veneto. C’è, ancora oggi, un Veneto fuori dall’Italia, per usare la bella espressione di Emilio Franzina, lo studioso che più d’ogni altro si è occupato di questi problemi [11] .

Questo fu, per l’Italia, il primo episodio di emigrazione permanente su larga scala.

 

Bilancia commerciale ed emigrazione: lavoro contro valuta pregiata

 

Il 1896, fu l’anno della svolta. L’Italia e l’Europa uscirono da questa grande depressione e iniziarono quel processo di crescita che viene fatto coincidere con la “Belle Epoque” e che in Italia corrisponde, più o meno a partire dal 1901, con il periodo del governo di Giovanni Giolitti.

Sono gli anni nei quali l’Italia compie il primo decollo industriale. Uso questo termine, decollo, utilizzato dall’economista americano W.W. Rostow, perché esprime bene il concetto. C’è un momento nel quale l’economia che si va espandendo si ritrova in un punto di non ritorno, il punto del take off: se non decolla, si involve [12] . L’Italia, in quel momento, raggiunse il punto del decollo. Fu una prima industrializzazione che però, come ben sappiamo, interessò solamente una piccola parte del Paese, la porzione del Settentrione che sta nel triangolo Genova -  Torino - Milano. Il resto del Paese dovette attendere molto tempo più tardi per industrializzarsi.

Ora, proprio in questi anni, nei quali vediamo la grande crescita del Paese, assistiamo ad un altro significativo flusso migratorio del Paese. Sembra un paradosso: proprio nel momento nel quale l’Italia sta crescendo, molta parte degli italiani, questa volta soprattutto uomini delle regioni del Sud, della Calabria, della Basilicata, della Sicilia e della Puglia migrarono per cercare fortuna. Questa volta la meta era soprattutto il Nord America, in particolare gli Stati Uniti.

Che connessioni ha questa grande migrazione italiana con l’industrializzazione del Paese che avvenne negli stessi anni? Ho sottolineato a proposito che l’emigrazione fu soprattutto dalle regioni del Sud, perché questo è un grande debito che il Nord ha nei confronti del Mezzogiorno, debito che non viene mai ricordato.

Lo sviluppo italiano industriale italiano aveva, lo si è detto, il grave problema della carenza di materie prime. E per far crescere l’industria occorreva importare fonti di energia (all’epoca soprattutto carbone) ed altre materie prime. Ma questo a sua volta poteva avvenire solo compensando queste importazioni con l’esportazione e saldando il deficit (perché lo scambio era sempre a noi sfavorevole) con oro, argento o con la valuta dei paesi dai quali importavamo.

Tutto ciò ci costringeva ad acquistare valuta estera pregiata (soprattutto sterline e dollari) contribuendo così a farne lievitare il valore, e a vendere lire.

La nostra moneta era destinata, quindi, a perdere sempre più il proprio valore, almeno fino a quando la crescita dell’economia avrebbe potuto bilanciare adeguatamente le importazioni con esportazioni di grande valore.

La moneta non avrebbe retto, secondo i più tra gli economisti, con un progetto di un’industrializzazione di questo tipo: l’Italia trasformatrice di beni avrebbe visto sfumare questa ipotesi di sviluppo proprio perché nella prima fase, la bilancia dei pagamenti non avrebbe potuto sostenere lo sforzo.

E invece, stranezze della sorte, l’Italia di quegli anni riuscì a dotarsi di una moneta molto stabile, una moneta che addirittura, uso il termine tecnico dell’epoca, faceva aggio sull’oro.

Ma mi si chiederà: “Ed in tutto questo come entrano gli emigranti?“. Entrano, eccome! Questi uomini, emigrando in America e, continuando a vivere nel modo austero, frugale al quale erano abituati nelle campagne della nostra Italia, risparmiarono molto.

E si ritrovarono con  un piccolo gruzzolo in valuta pregiata (dollari o sterline) che in molti casi veniva sistematicamente inviato in Italia [13] . Molti accarezzavano il sogno di poter un giorno ritornare al paese per poter vivere gli anni della vecchiaia in agiata serenità.

Le rimesse degli emigranti fecero la fortuna di molti istituti di credito che su queste operazioni di trasferimento costruirono un lucro non indifferente e che questa valuta pregiata “iniettarono“ nel sistema finanziario italiano [14] .

In questo modo il nostro Paese poté iniziare il processo di industrializzazione: nell’interscambio commerciale con l’estero oltre alle “partite visibili“ (materie prime agricole e manufatti industriali) andavano computate anche le “partite invisibili“ (i proventi del lavoro umano trasformati in rimesse). L’Italia aveva alienato il suo bene più caro, il lavoro dell’uomo, ed aveva ottenuto in cambio il “nulla osta“ per lo sviluppo.

Il contributo di tutta una Nazione fu dato a quella parte del Paese che più era predisposta (per tradizione e per grado di sviluppo) rispetto al processo di industrializzazione.

C’è infine un ulteriore elemento importante che generalmente non viene considerato e che, negli ultimi cinque minuti che mi rimangono, vorrei almeno enunciare. Un altro dei motivi che impedivano al nostro Paese di crescere dal punto di vista industriale era legato al mercato interno, nel senso che si era costretti, tra i produttori di manufatti, a cercare sempre uno sbocco verso l’estero perché il consumatore italiano riusciva a malapena, con la dotazione di risorse che aveva, a sbarcare il lunario.

C’è una importante legge dell’economia, che Ernst Engel, statistico tedesco dell’Ottocento, ricavò dall'analisi dei bilanci familiari. La legge postula che la percentuale della spesa familiare destinata all'acquisto di beni alimentari decresce al crescere del reddito familiare disponibile. Nelle famiglie più povere l'alimentazione assorbe una percentuale elevata dei consumi complessivi, mentre nelle famiglie a più alto reddito tale percentuale è molto minore.

Nell’Italia di allora il reddito dei più era tutto assorbito dalle spese alimentari e per resto rimaneva ben poco! Ed anche tra gli alimentari si privilegiavano i più economici cioè i derivati dei cereali. Con pane, pasta e polenta ci si “riempie“ con poca spesa!

In queste condizioni era necessità per i produttori delle manifatture il guardare all’estero, con tutti i problemi di insicurezza che un mercato di esportazione come quello di allora finiva per porre.

Ma anche di fronte a questo elemento giovò in positivo l’uscita delle braccia degli emigranti dai confini nazionali: deflazionato il mercato del lavoro anche le rivendicazioni operaie poterono avere maggior successo. Gli anni d’inizio Novecento, infatti, sono anni di grande conflittualità sociale [15] .

Così, spinta dal volano della crescita economica, anche la ricchezza prodotta poté essere in parte ridistribuita sotto forma di salario e così, uscite molte famiglie dall’indigenza più nera, anche l’Italia si dotò di un pur modesto mercato interno per le proprie manifatture.

Nell’insieme, quindi, ricapitolando, possiamo dire che l’emigrazione è sempre esistita, ha fatto la fortuna dell’Europa, che non avrebbe avuto industrializzazione senza questa valvola di sfogo. Nel nostro piccolo poi non possiamo disconoscere che l’emigrazione ha permesso la crescita del nostro Paese. Dobbiamo essere profondamente grati a queste persone che sacrificando la loro vita e i loro sentimenti (perché è veramente difficile sradicarsi da una realtà per radicarsi in una realtà totalmente diversa), hanno permesso la crescita del Paese in un modo inaspettato.

E’ anche grazie a loro che oggi possiamo gratificarci di vivere in quella che, nel bene o nel male, è pur  sempre una delle maggiori potenze economiche industriali del mondo.

 

 


 

(*) Istituto di Storia economica e sociale “Mario Romani”, Facoltà di Sociologia Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

[1]   D.Grigg, Storia dell’agricoltura in Occidente, Bologna 1994.

[2] Allan Nevins, Henry Steele Commanger, Storia degli  Stati Uniti, Einaudi, Torino, 1980.

[3] T.R.Malthus, An Essay on the Priciple of Population [1798], Harmondsworth  1970.

[4] D.H. Aldcroft-S.P. Ville, L’economia europea 1750-1914: un approccio tematico, Milano, 2003; si veda inoltre :L.Bacci, Storia minima della popolazione del mondo, Bologna 1998, pp. 110 sgg.

[5] AAVV, Migrazioni attraverso le Alpi occidentali, Regione Piemonte, Torino, 1988; per un inquadramento generale del fenomeno migratorio si veda: Emilio Franzina, Gli italiani al Nuovo Mondo   L’Emigrazione italiana in America 1492-1942, Mondatori, Milano, 1995.

[6] Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino, 1976.

[7]   L’analisi ad oggi più puntuale in merito a questi concetti è ancora quella di Mario Romani, Storia economica d’Italia nel secolo XIX (1815-1914), Milano 1970, vol.1, pp.98 sgg.

[8] Il diffuso scetticismo su una possibile prospettiva industriale del Paese era soprattutto rappresentata da Stefano Jacini; si veda in proposito: Antonio Prampolini, Stefano Jacini e l’illusione agricolturista, in Studi Storici, 1977, n. 2; ed anche: Alberto Caracciolo, L’inchiesta agraria Jacini, Einaudi, Torino, 1973.

[9] Sulla Grande depressione si veda: Maurice Dobb, Problemi di storia del capitalismo, Editori Riuniti, Roma, 1972, pp 341-361; ed anche Karl Polanyi, La grande trasformazione  Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino, 1974, pp 266-278; sull’espansione dell’economia nord-americana si veda: Pier Angelo Toninelli, Nascita di una nazione Lo sviluppo economico degli Stati Uniti ( 1780-1914), Il Mulino, Bologna, 1993.

[10] Cfr. Giuseppe Are, Alle origini dell’Italia industriale, Guida, Napoli, 1974.

[11] Emilio Franzina, La grande emigrazione L’esodo dei rurali dal Veneto durante il secolo XIX, Marsilio, Venezia, 1976, per una sintesi rapida delle ripercussioni in Italia della Grande Depressione si rimanda a Pietro Cafaro, La transizione tra difficoltà e adeguamento (1878-1896), in L’Ottocento economico italiano, a cura di Sergio Zaninelli, Bologna 1996.

[12] Walt Whitman Rostow, Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi, Torino, 1962.

[13] Cfr. Luigi De Rosa, Emigranti, capitali e banche, Napoli 1980.

[14] Cfr. Vera Zamagni, Dalla periferia al centro La seconda rinascita economica dell’Italia 1861-1981, Il Mulino, Bologna, 1990, pp 164-171.

[15] Cfr., Mario Romani, Appunti sull’evoluzione del sindacato, nota introduttiva di Sergio Zaninelli, Roma 2000.