Al
Bugnét da Bernà
Olio
su tavola, 50
× 70 cm
Firmato
in basso a destra, non datato
Collezione
privata
Nella
prestigiosa sede milanese di Piazza Belgioioso, nel settembre 2004
sono andati dispersi gli arredi e i beni d’arte della storica
«Società Artisti e Patriottica», l’antico circolo
culturale che vantava la sua origine in una istituzione fondata da
Maria Teresa d’Austria nel 1776. Sfogliando il catalogo d’asta
diffuso all’occasione, con dipinti e sculture destinate all’incanto,
ho riconosciuto in un olio su tavola, erroneamente presentato come
veduta del «Lambro», il rione Bugnét di Bernate Ticino,
raffigurato in modo preciso e inequivocabile nei colori di una
bella tavolozza chiarista. Il dipinto era firmato da Roberto Borsa
(1880-1965), artista che gode di una certa notorietà in ambito
milanese, cui non doveva essere estranea la frequentazione delle
località dislocate lungo le rive del Naviglio Grande: un suo
dipinto dal titolo «Lo storico ponte di Boffalora» è custodito
nella Galleria d’Arte Moderna di Milano.
Il
quadro in questione ritrae il gruppo di case rurali situato sulla
sinistra del Naviglio, a valle del ponte che collega i due nuclei
del paese dominato dal complesso canonicale di San Giorgio, dove
lo scrivente ha trascorso il suo primo trentennio. La datazione
dell’opera risale verosimilmente agli anni Quaranta del secolo
scorso e restituisce, almeno in parte, l’aspetto del vecchio
abitato del paese, consistente di corti coloniche, con case
aggregate secondo il modulo della tipica cascina lombarda. Le
costruzioni rustiche avevano i tetti in coppi, a semplici falde
che andavano a coprire l’abitazione a due piani con scala
esterna e ringhiera; addossati o separati dal cortile, i cascinali
e le stalle in cui la famiglia trascorreva le ore più fredde dell’inverno.
Le condizioni igieniche erano notoriamente precarie e a dispetto
di ogni regolamento, fino al secondo dopoguerra, ogni contadino
tesaurizzava il letame accumulandolo ai bordi della strada o al
fianco delle abitazioni, molte delle quali ridotte a malsani
tuguri. Med da rüch a ridosso della pubblica via sono
visibili anche nel dipinto.
Il
rione Bugnét, ritratto dal Borsa durante una luminosa
giornata di sole in periodo di sùcia del canale (marzo o
settembre), prendeva inizio con l’Osteria dell’Isola,
frequentatissimo luogo di ritrovo nei giorni di festa. All’occasione
la cucina dispensava grati afrori di pesce fritto e di stufati,
mentre dal tavolo di sasso, sotto il pergolato di glicine,
provenivano vivaci le grida dei giocatori di carte e di morra. Nel
giorno della sagra del paese (Nosta festa) l’aia del
cortile si trasformava in balera e ospitava molte coppie che
ballavano al suono di un’orchestrina − protagonista la
fisarmonica e la tromba di Mario Cavajani − mentre la Olga,
serviva uno squisito gelato a base di latte e uova, preparato nei
giorni precedenti con una monumentale pinagia.
Sulla
via in breve discesa, si susseguivano le case i cui proprietari
avevano un soprannome, dal significato per me in gran parte
oscuro. Filisìn d’al ciurla (Felice Garavaglia), al suo
ritorno dall’America, si era costruito una abitazione con stalla
e portich, parzialmente visibile al margine sinistro del
quadro. Il primo edificio raffigurato per intero apparteneva a Pin
liòn (Giuseppe Tizzoni), ma in effetti era stata fabbricato
da Ernesto Ottolini, chiamato Menevado, con i sudati
guadagni d’emigrante al suo rientro dagli Stati Uniti. I soldi
non gli erano bastati per ultimare i pagamenti, tanto che il
poveretto aveva presto dovuto cedere la casa e ritirarsi a vivere
nella stalla con la moglie Niculina e un buon numero di
marmocchi. Maggior fortuna ebbe un altro emigrante, Pompeo
Ottolini, detto Principìn: i risparmi gli permisero di
edificare una casa alta, certo una delle più belle del paese, con
decori floreali su un fondo rosso pompeiano ancor oggi mantenuto.
Al suo fianco si apriva la corte dei Bulìtt (Bollini),
dove abitava Martino Agosti detto Martìn d’l Luca.
Addossata stava la corte dei Laùst (Agosti), seguita da
quella ben più vasta dei Cugliàtt (Cogliati),
caratterizzata, sul fronte a ridosso della strada, da una grande
apertura ad arco che consentiva l’ingresso agli alti carri di
fieno. Lungo la via, le stalle presentavano piccole aperture per
consentire lo sfiato ai bovini rinchiusi: ricordo che le povere
bestie sporgevano ansimanti le narici, emettendo un continuo e
penoso muggito.
Nel
mezzo della successiva corte dei Bugnìtt (Bognetti), un
annoso gelso offriva la sua ombra alle donne che si raccoglievano
in gruppo nei pomeriggi estivi. Vigilavano, sui lati dell’ingresso,
le abitazioni della Rumilda, moglie di Paolo Bognetti e
della Beciuraia, una figura felliniana, una donna immensa
sorretta a stento da gambe grosse come colonne egizie. Il
misterioso soprannome, declinato al femminile, le derivava dall’intercalare
del marito con una frase appresa durante il soggiorno in America.
Raccontando ai compagni d’osteria le sue mirabolanti avventure d’oltreoceano,
rassicurava l’incredulo interlocutore reiterando: You can bet
your life! (puoi scommettere la tua vita!) che al bernatese,
ignaro della lingua inglese, suonava come beciurai!
Seguivano
la corte di Lésich, che riuniva le famiglie Ranzini, e di
fronte, aperte direttamente sul Naviglio, quelle del Gèp
Valìs (originario dalla cascina Valigio) e del Pulotta,
nomignolo affidato a Paolo Cavajani, proprietario di una cava di
sabbia attiva nelle vicinanze.
Accanto
al piccolo orto, a Borsa non è sfuggita la piccola costruzione
cubica del forno sociale, oggi scomparso, tante volte da me
frequentato al seguito della carriola di nonna Angela (Giulina
Bagòt), imbonito a non allontanarsi dalla marna colma
di grosse pagnotte di segale e frumento, con la promessa di una brusavéla,
una gustosa focaccia farcita di fichi e uva passa. Il forno era
stato costruito con quote versate da tutti gli abitanti del rione,
compresi quelli dell’adiacente Belelvolt (Cascina Abele),
ma quando fu dismesso, burocrazia volle che finisse al solo
proprietario del fondo.
Nelle
vicinanze del forno, sullo spiazzo sterrato e fangoso, usato in
autunno come aia per seccare le granaglie stese su cerate, un
incredibile numero di oche si godeva l’acqua di rigagnoli e
pozzanghere. I pennuti costituivano una preziosa risorsa per la
loro piuma e ogni famiglia aveva il suo piccolo branco, tanto che
il villaggio si era guadagnato il toponimo di paés di och:
il pittore, forse non del tutto inconsapevolmente, non ha
tralasciato di raffigurare i bianchi volatili nelle acque basse
del canale. Un lungo tratto della sponda accanto al forno fungeva
da lavatoio: donne di ogni età lo frequentavano in ogni stagione,
inginocchiate sull’assìn, duramente provate dalla fatica
di insaponare e risciacquare i panni nelle acque del Naviglio.
Sulla
riva opposta, l’alzaia era abitualmente percorsa da carri
agricoli e da cavalli (poi da trattori) al traino dei barconi che
facevano la spola tra le cave di sabbia di Castelletto di Cuggiono
e la darsena di Porta Ticinese: oltre l’ansa del canale, un’ampia
risorgiva (Lancòn) alimentava una limpidissima rungia,
testimone dei miei maldestri tentativi di catturare con una
forchetta, sotto la guida delle zio Genio, rane, bòtar e
gamberi di fiume.
Ora
il quadro si è guadagnato uno spazio su una parete di casa, a
richiamare la memoria dell’infanzia, distese di campi e di verdi
marcite, giochi all’aperto di un bambino istruito alla vita dal
nonno Gin, classe 1897, emigrato in America a sedici anni
compiuti in viaggio sulla nave… un mai dimenticato Geppetto che
costruiva per me giocattoli di legno tinti d’anilina…
Sergio
Baroli
Bernate
Ticino, Dicembre 2007
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